ItaliaOggi, 20 novembre 2014
Per Carlo Verdelli «la crisi dell’Italia è la crisi del Nord. Dalle esondazioni agli scioperi fino all’assalto al Vescovado, sta montando una rabbia cieca che non trova rappresentanza nei partiti né nei sindacati. Una rabbia che, presto o tardi, farà il morto»
Milano e il Nord li ha raccontati approfonditamente, da cronista da marciapiede, al suo esordio alle pagine meneghine di Repubblica, alla fine degli anni ’70. Poi, Carlo Verdelli, milanese, classe 1957, ha fatto una carriera superba: vicedirettore del Corsera, superdirettore della Gazzetta dello Sport, portata al record di copie, oltre 2 milioni, direttore a Vanity Fair, caso clamoroso di femminile diventato di culto anche per gli uomini. Fino addirittura a mettersi a fare l’editore, come vicepresidente esecutivo di Condé Nast, ché di giornali ne sa come pochi. Ora però Verdelli è tornato a scrivere per Repubblica, a girare l’Italia da cronista, a fare inchieste «at large», come dicono gli Americani. E spesso racconta di questo Nord in mezzo alla crisi.
Verdelli, lei milanesissimo, come vede questo Settentrione alla prese con le durezze della congiuntura?
«L’Italia e il Nord stanno poco bene. Un dato palpabile aldilà degli articoli. Ci sono numeri che lo dicono, impietosamente».
Qui c’è l’imbarazzo della scelta...
«Sì, quelli di Banca Mondiale e Fondo monetario che ci hanno messo fuori dalla top ten del Pil mondiale. Ora, sono parametri discutibili, ne convengo, però siamo finiti al 12mo posto dopo il Messico, quando, non troppi anni fa, eravamo la quinta potenza economica mondiale. C’è il dato del debito pubblico che spaventa, come ha detto Mario Draghi».
Ricordiamolo...
«Ha detto che chi ha troppi debiti finisce per perdere la sovranità. Siamo infatti un Paese ricco, abitato da poveri».
In che senso?
«Nel senso che è vero: la ricchezza privata, 8mila miliardi, è pari a quattro volte il debito pubblico, ma metà di quel patrimonio è in mano al 10% della popolazione. C’è cioè un problema, clamoroso, di redistribuzione del reddito in un Paese di antica tradizione democratica, nel senso anche delle possibilità economiche e dei mezzi. E dentro Eurolandia, nel famigerato rapporto debito/Pil, veniamo prima solo della Grecia che però, dopo la cura della Troika, è in risalita».
E il Nord, da cui siamo partiti?
«Il Nord, che ha il 70% del Pil di questo Paese, non è ovviamente un’isola felice. Girando per Milano, negli ultimi tempi, mi capita sempre più di osservare alcuni elementi in apparente contraddizione».
Quali?
«Le file alle mense dei poveri. Che si allungano. Sono i luoghi messi in piedi dall’associazionismo cattolico, dall’Opera S. Francesco alla Caritas».
Sono a Milano da più di 15 anni e le ho sempre viste...
«Sì, se uno passa in macchina, gli possono sembrare le solite code di immigrati, di senza fissa dimora, che vediamo da tempo. Però se uno ci si avvicina e parla con la gente che attende un pasto caldo, scopre un’altra realtà».
Per esempio?
«I tanti, tantissimi Italiani. Per fare un’inchiesta, ho parlato con un signore, che aspettava il suo turno. Lui, a un certo punto, ha aperto il portafoglio e ha estratto il biglietto di Inter-Bayern, la finale di Champions League a Madrid nel 2010. Me l’ha mostrato per dire che solo quattro anni fa, le cose andavano così bene che si poteva permettere di prendere l’aereo e andare all’Estero per una partita di calcio».
E dopo?
«Poi, perso il lavoro, perduta la casa, arriva la separazione con la moglie ed eccoti a dormire in macchina. A mangiare coi clochard. E stiamo parlando di Milano, ripeto, la capitale della finanza, il cuore economico di questa Italia. E se non fosse per questa rete di associazioni cattoliche che danno una mano al Comune, creando una rete di protezione, ci sarebbero migliaia di persone alla disperazione».
Qual è la contraddizione cui accennava prima?
«Che se arrivi in aereo o scendi alla stazione centrale, vedi questa scintillante skyline, fatta di guglie e grattacieli. Parlo dell’ex-Varesine, di piazza Gae Aulenti, di Palazzo Lombardia, bellissimo, del Bosco verticale, una delle costruzioni più avveniristiche, di City Life con i progetti delle archistar, e allora ti dici che andiamo benissimo, che questa città è in controtempo. Poi...».
Poi?
«Poi vai a vedere le vendite di quei magnifici appartamenti, da poco ultimati, e i venditori, le agenzie, ti dicono che ne hanno piazzati solo il 30%. Se ci passa la sera, lei vede grandi superfici di finestre buie. E questi splendidi giganti, ecologici, a risparmio energetico, hanno costi di manutenzioni enormi e, se non si riempiranno a breve, saranno nodi che verranno al pettine».
Qualche speranza la suscita, o forse la suscitava l’Expo.
«Sì, guardiamo tutti a questo evento come fosse la bacchetta magica di Herry Potter. Speriamo. Il dramma è che i problemi non si fermano solo a Milano. Prendiamo Torino, per esempio».
Città in difficoltà in effetti, ma lì la causa la conosciamo.
«La Fiat, dice? Certo. Insieme alla testa pensante di quel gruppo ha perso la centralità di capitale. Finché c’era Corso Marconi. Torino era il terzo polo italiano, con Milano e Roma. Un indotto enorme ma anche una grande influenza, essendo guidata dagli Agnelli. Il ché, per converso, faceva di quella città anche la capitale di sindacato, perché era la patria delle relazioni industriali. Non solo, era la culla dell’azionismo, perché con Norberto Bobbio, lì viveva l’unica cultura alternativa a quelle cattolica e comunista, le chiese italiane. Ora, nata la Fca, tolta la Fiat, l’azionismo come fenomeno del secolo scorso, abbiamo perso la terza capitale».
Qualche problema anche a Nord Est.
«Sì, ne parlava Matteo Salvini in un’intervista che gli ho fatto per Repubblica. E citava i dati di ItaliaOggi sulla piccola e media impresa: dal 2008, su 144mila aziende di questo tipo, ha chiuso una su cinque. I fallimenti in questo settore sono un elemento spaventoso. Ma il problema è che non è un dato di fine corsa, perché la corsa non è finita. Nessun analista vede uno spiraglio di luce nel 2015. E qui magari, si torna a maledire il fatto che non abbiamo grandi aziende».
È vero, purtroppo...
«Sì ma il ragionamento sul macrosistema è inutile: è la nostra storia. Veniamo dai comuni, quel tessuto connettivo della nostra economia, arriva dall’Italia municipale. Un tessuto peraltro fatto di eccellenze, il nostro made in Italy nasce da lì. Lì c’è l’artigiano industriale della Ferrari, che non è una piccola impresa ma ne ha lo spirito, dove ci sono le file di addetti che cuciono, a mano, i sedili delle auto».
Quali altri dati di preoccupazione scorge all’orizzonte.
«Anche queste alluvioni nel Nord mostrano un problema grave. Se crolla Pompei, infatti, facciamo i soliti discorsi: ecco, è il Sud, dove non si manutiene, va tutto a puttane ecc. Se esondano i fiumi a Milano, in Liguria, se siamo impotenti dinnanzi a piogge che non sono tsunami, beh allora significa che c’è un problema enorme. D’altra parte siamo un Paese che perde importanza».
Da dove lo deduce?
«Siamo a Milano, la capitale finanziaria, lo dicevamo prima. Bene, in Borsa, il 42% delle società è in mani straniere. Non che sia un disvalore, intendiamoci. In qualche caso è speculazione ma è più spesso un segnale. Insomma, se la nuova Fiat, la Fca, porta la sede legale altrove e quella fiscale ugualmente fuori dal Paese, qualche problema c’è».
Senta Verdelli, però non dei millenni fa ma meno di 40 anni orsono, c’era la «Milano da bere», la capitale più dinamica d’Europa. Dov’è finita e di chi è la responsabilità?
«Roba del secolo scorso. I passaggi di secolo non sono mai sono cronologici: il Novecento non finisce nel 1999. Si è protratto fino al 2004 e 2005, poi c’è stata una prima crisi nel 2006: come una scossa tellurica, che poi è sembrata passare, l’anno dopo. Abbiamo tutti pensato di aver preso una buca».
E invece?
«E invece quello era il segno che stava per cambiare la civiltà post-post industriale, del secondo 900, e cominciava una civiltà digitale. Al Nord è stato evidente, perché l’economia era avanzata. Eppure, non abbiamo fatto niente. E il Nord ha una doppia responsabilità: è affacciato sull’Europa, sul mondo occidentale. Alcuni passi, erano evidenti».
Quanto al digitale, non abbiamo avuto neppure la prontezza di investire in banda larga e siamo ancora la palo.
«Ed è incredibile. Abbiamo parlato rivoluzione digitale, dell’inizio di una nuova era. Non c’è capitata addosso, era annunciata».
Responsabilità?
«L’impressione che ci ha governato a tutti i livelli, anche politici e finanziari, non abbia avuto abbastanza sapienza per capire la crisi strutturale. E come fossero indispensabili i cambiamenti. Non abbiamo mutato niente nel profondo. Niente. È arrivato Mario Monti, quando lo spread era alle stelle, e s’era generata l’impressione che, qualsiasi cosa facesse, andasse bene. Ma non era cambiata la coscienza del problema. Nella classe dirigente italiana, perché non si può dar colpa solo ai politici, è mancata la Cassandra, o il gruppo di cassandre, che dicessero: “Guardate, così diventa il Titanic”».
Perciò siamo ancora dentro alla crisi.
«È cambiato il mondo, ma noi non l’abbiamo capito. C’è un dato spaventoso: sette milioni di italiani, negli ultimi tre anni, hanno venduto 200 tonnellate di oro, per otto miliardi di euro. Chiaro che non avevamo i lingotti: abbiamo vendute le catenine, l’oro della nonna. Cominciamo a raschiare il fondo del barile. E questo per quella metà di ricchezza privata nelle mani del 90% degli Italiani, come si diceva. C’è del grasso, i 4mila miliardi, ma si va esaurendo».
Che cosa c’è all’orizzonte?
«Mi ha colpito lo sciopero sociale, abbinato alle manifestazioni Fiom e Cgil. M’è parso però di vedere una rabbia per strada non veicolata da nessuno, non rappresentata. Una rabbia che, presto o tardi, farà il morto. Nemmeno nel ’68 o nel ’77 si cercò di assaltare l’Arcivescovado di Milano».
Segnali di speranza?
«C’è una frase di Matteo Renzi che mi ha colpito. “La sinistra ha sempre voluto cambiare gli italiani”, ha detto, “io voglio cambiare l’Italia”. Mi auguro davvero che ce la faccia. Allora faccia un bel giro al Nord. Il Settentrione alluvionato racconta una storia di malgoverno, malaffare, burocrazia. I morti da alluvione, gli angeli del fango non sono da primo mondo».
Quando dice che il mondo è cambiato e noi no, intende alla necessità di modernizzare questo Paese?
«Non sono un politico, non ho ricette. So che bisogna affrettarsi lentamente, come dicevano i Latini. Abbiamo una tradizione, una Costituzione, che non ci sono state regalate, vengono dai nostri padri, dai nostri nonni. Un sistema che è stato pagato, anche con la metà dello stipendio, ossia con le tasse. E c’era un patto sociale: pagate le tasse, e vi daremo autostrade, sanità gratis, scuola pubblica. In America invece dicevano: non vi diamo niente, solo la sicurezza, in cambio, quelli più bravi, potranno fare fortuna».
Patti diversi, evidentemente.
«Ecco, cambiare il patto, come sta avvenendo per necessità e urgenza, si può ma bisogna spiegarlo bene. Sennò rischia di non essere compreso. E, secondo me, gli Italiani non stanno capendo. Non si può ridurre le tutele senza far comprendere bene. A volte mi pare che si guardi al Jobs Act come all’Expo, come a qualcosa che possa cambiare di colpo tutto. Renzi, che passa per grande comunicatore, sta comunicando poco e male, taglia le curve invece di spiegare con chiarezza al Paese i rischi che stiamo vivendo e quelli che stiamo correndo. Non cedere ai compromessi va bene, giusto non perdere quella ragione sociale per cui ha preso il 40% alle europee, fatta di volontà di cambiamento, ma spieghi bene dove stiamo andando».
O la rabbia salirà, lei dice...
«Occorre capire quella rabbia e smontarla rapidamente. Il Nord è la prua della piroga che punta le cascate del Niagara. Sono lì, si vedono».
Verdelli ma Milano ha reagito a tempi davvero cupi. Penso alla lunga notte della violenza politica e del terrorismo. La città mostrò una tempra morale autentica.
«È vero. Ora però quella tempra non la si sente più. Andando in giro per Milano, in auto, ci si prende paura: una battaglia, se sbagli una manovra ti sbranano. Ci vuole il Lexotan di scorta. C’è una rabbia cieca e selvaggia, un’insofferenza pesante basta vedere quello che sta succedendo nelle case dell’Aler e nell’incendio delle periferie».