Libero, 21 novembre 2014
Quel convegno sull’incompatibilità di un politico di Firenze (o di lì vicino) con la democrazia. E dire che «un uomo libero, quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno»
Ho sentito per radio un convegno che c’è stato a Firenze, che se non ho capito male era un convegno sull’incompatibilità del capitalismo finanziario con la democrazia, e mi ha fatto impressione perché quelli che parlavano, che erano dei professori come Marco Revelli e Adriano Prosperi, dei sindacalisti come Gianni Rinaldini, dei giornalisti come Norma Rangeri e dei politici come Pippo Civati, Curzio Maltese e Antonio Ingroia, sembrava che avessero tutti un unico tema, che li interessava, un’unica idea, che li guidava, che era una specie di avversione, un po’ viscerale, proprio di schifo, anche, un po’, per un politico di Firenze, o di lì vicino, che in questo momento lavora a Roma, gli han dato un incarico un po’ impegnativo, ed è stato interessante, ascoltare questo convegno, perché ce l’avevano tutti con lui, poverino, e il convegno, a sentirlo, si sarebbe potuto chiamare L’incompatibilità di un politico di Firenze (o di lì vicino) con la democrazia. E mi è sembrato che l’idea o, forse, il sentimento, che veniva fuori da tutte le relazioni che ho sentito per radio l’altro giorno, fosse che se quel politico lì di Firenze (o di lì vicino) si togliesse finalmente di mezzo, noi, in Italia, staremmo molto meglio. E a me è venuto da pensare che quel sentimento era sovrapponibile al sentimento che dieci anni fa muoveva questi stessi relatori quando partecipavano a dei convegni che si sarebbero potuti chiamare L’incompatibilità di un imprenditore lombardo con la democrazia, o, trentacinque anni fa, li avrebbe mossi se avessero partecipato al convegno L’incompatibilità di un politico milanese pelato con la democrazia, o, quarantacinque anni fa, L’incompatibilità del partito della Democrazia cristiana con la democrazia. E la cosa che mi ha colpito di più, di questo sentimento, non è un’idea, è un sentimento, a parte la sua natura meccanica, che è come se fosse indipendente dall’oggetto sul quale si scarica, è uguale che sia un fiorentino o un lombardo o un laziale, l’importante è che sia uno, che impersonifica il male, la cosa che mi ha colpito di più è il fatto che in questo ragionamento, che non è un ragionamento, è un sentimento, come l’auspicio di una liberazione, il senso della libertà che ci sarà quando si toglierà poi di mezzo lui che finalmente staremo bene, comporta il fatto di dare a lui, a quello lì, a quell’oggetto, un potere che lui, quello lì, quell’oggetto toscano, o lombardo, o laziale, a me sembra non abbia minimamente. E mi è venuto in mente, a ascoltare questo convegno, una cosa che ho letto tanti anni fa e che ho già citato e che credo che citerò ancora perché mi viene in mente spesso, quel che dice un poeta russo in un discorso del 1987, un poeta che aveva avuto a che fare con un potere impegnativo, il potere sovietico, e era stato prima condannato ai lavori forzati per parassitismo poi cacciato dall’Unione Sovietica e separato a forza dalla sua famiglia, Iosif Brodskij, che nel 1987 ha detto: «Comunque, se vogliamo avere una parte più importante, la parte dell’uomo libero, allora dobbiamo essere capaci di accettare, o almeno di imitare, il modo in cui un uomo libero è sconfitto. Un uomo libero, – scrive Brodskij, – quando è sconfitto, non dà la colpa a nessuno». Che Dio benedica Iosif Brodskij.