Libero, 21 novembre 2014
Joseph Mitchell, il reporter che non scriveva nulla. Precursore del New Journalism – quello di Capote per intenderci – non batteva più di 333 parole l’anno. Ma erano stupende. Dopo l’incontro con un eccentrico barbone che parlava con gli uccelli, decise di chiudersi nel più sublime dei silenzi
Dev’essere l’influenza narcisistica di Walt Whitman, ma non è difficile a New York incontrare svitati, o a essere buoni, eccentrici, che abbiano l’ambizione di cantare l’uomo che contiene moltitudini, se stessi e la città in cui vivono in una «Storia orale del nostro tempo». Uno di questi eccentrici, il più famoso e il più clamorosamente mitomane, fu Joe Gould, barbone chiamato il professor Gabbiano giacché asseriva di conoscere la lingua di quegli uccelli e di aver tradotto nel loro idioma molti versi di H.W. Longfellow, poeta americano dell’Ottocento. Gould divenne una celebrità – dopo essere stato, lui e il suo monumentale progetto di Storia orale, un segreto per intenditori quali Ezra Pound e E.E. Cummings – quando un non meno eccentrico autore del New Yorker, Joseph Mitchell, ne fece il ritratto in due libri: Il professor Gabbiano del 1942 e Il segreto di Joe Gould del 1964. In quest’ultimo libro, Mitchell, dopo aver tallonato Gould per decenni, toglie il velo di Iside dalla Storia orale: non esisteva, non era mai esistita. Joe Gould era un millantatore. Quel torrenziale documento di nove milioni di parole, ricavato da circa 20mila conversazioni captate dall’uomo della strada newyorchese che consuma un pasto in un diner, sale su un bus, assiste a una messa, partecipa a un ballo, scoprì Mitchell, era una pura e semplice allucinazione di Gould. La cosa affascinante è che Mitchell, originario del North Carolina e venuto a New York per fare il giornalista nel ’29, a pochi giorni dal crollo di Wall Street, fu fin dagli esordi un maestro di quel New Journalism che poi Truman Capote, con la consueta astuzia pubblicitaria, rese una moda irrinunciabile. Il New Journalism era quello stile da Actors Studio applicato alla letteratura, per cui l’autore non deve fornire un resoconto freddo e distaccato, ma immedesimarsi, diventare l’oggetto di ciò che scrive: e Mitchell, ovviamente, divenne soprattutto dal ’43 al ’47, quando lo intervistò più assiduamente, Joe Gould. E quando scoprì che la Storia orale era una panzana, e che Gould aveva riempito quaderni di revisioni e revisioni millimetriche degli stessi pochi capitoli, Mitchell ne ebbe un trauma così vasto che non riuscì, nemmeno lui, a scrivere più nulla. Per trent’anni aveva lavorato in varie redazioni giornalistiche, approdando infine al New Yorker, specializzandosi in ritratti di eccentrici, fenomeni da baraccone, emarginati, lunatici, psicopatici, e per gli ultimi trent’anni, fino alla morte nel 1996, assorbito dal più geniale psicopatico che aveva incontrato – Gould appunto – Mitchell divenne uno di loro, una leggenda urbana, un giornalista del New Yorker che ogni giorno che il cielo mandava in terra si presentava in ufficio, impeccabilmente vestito, salutava cortesemente i colleghi, si barricava nel suo ufficio, ne usciva per la pausa pranzo chiudendo a chiave la porta, vi rientrava e infine tornava a casa. Tutto questo senza mai più produrre un articolo. Come l’attore Bela Lugosi, dopo aver interpretato Dracula, arrivò in un’identificazione psicotica a credersi il Conte, a vestirsi come lui e, si mormora, a dormire in una bara, Mitchell, per sua esplicita dichiarazione in una delle sue ultime interviste, finì per diventare Gould, che nel frattempo era morto nel 1957. Una specie di reincarnazione. Come Gould avrebbe avuto i cassetti traboccanti di fogli con la sua mitologica Storia orale, così sembrava che Mitchell, blindato nel suo ufficio al New Yorker, lavorasse a qualche oscuro, segreto affresco, onnicomprensivo e incredibilmente vitale, come solo lui sapeva fare, della città in cui amava perdersi in lunghe passeggiate a piedi o sui mezzi pubblici. Quando poi l’eredità letteraria di Mitchell, alla sua morte, venne alla luce, risultò che in quei trent’anni c’erano solo tre pezzi di circa diecimila parole: aveva scritto una media di 333 parole all’anno. Uno di questi articoli è stato pubblicato nel 2013 dal New Yorker e ora esce in traduzione italiana: Una vita per strada. Diventare parte della città (Adelphi, pp. 52, euro 7). Il testo vero e proprio di Mitchell, incompiuto – come tutto ciò su cui lavorò dal «blocco» del 1964 in avanti – è di una ventina di pagine, completa il volume una bella nota del curatore, Matteo Codignola, che si assume anche l’ingrato compito degli scontati parallelismi con altri celebri casi di prolungati e definitivi silenzi letterari: Salinger ovviamente, ma anche Truman Capote alle prese con Preghiere esaudite. Ma nonostante la brevità, il testo di Mitchell è stupendo: un’immersione elegiaca nella città di New York dal punto di vista di un passeggero seduto sul sedile posteriore di un autobus. La fascinazione per le decorazioni sulle facciate dei palazzi in pietra arenaria, l’intrusione nelle messe dei molteplici riti, dal cattolico antico all’ortodosso russo, la raccolta di oggetti in una fenditura del selciato che finirà per arricchire il più strabiliante lascito di Mitchell: una collezione di cose trovate e conservate in barattoli di marmellata, con etichette recanti didascalie da lui compilate. Questo libretto è una delle cose più singolarmente affascinanti che ci sia capitato di leggere da tempo.