Libero, 21 novembre 2014
«C’è la guerra. Vogliono conquistare il mondo, non solo l’Italia». Parla Gianluca Salviato, il veneziano di Mestre finito per otto mesi nelle mani dei tagliagole islamici
«Mi stavano facendo vedere un filmato della Jihad, dei loro combattimenti in Siria. Erano parecchio su di giri. A un certo punto, con tono deciso, uno dei miei carcerieri mi ha chiesto se fossi musulmano. Ho risposto di no, che ero cristiano. Mi ha guardato fisso e mi ha detto, in italiano: “Io voglio un’Italia tutto islam”». Gianluca Salviato, 48 anni, veneziano di Mestre – da tempo abita a Trebaseleghe, in provincia di Padova – per otto mesi è stato ostaggio di una dozzina di rapitori in Libia. Lavorava a Tobruk come tecnico per la società di costruzioni Enrico Ravanelli. Da una settimana è tornato nel suo Veneto, circondato dall’affetto della moglie e degli amici. Ricorda tutto della sua carcerazione. E tra i ricordi più nitidi c’è la convinzione dei suoi rapitori di convertire tutto il mondo al loro credo. Secondo lei c’è un esercito pronto a farlo? «Ci stanno già provando. Militarmente sono molto organizzati. Il mio rapimento è stata un’azione di guerra in piena regola. Bloccato da due auto, una davanti e una dietro, con un commando che sapeva benissimo cosa stava facendo. Mi hanno picchiato, portato nel primo covo e minacciato di morte con una pistola puntata alla testa». Secondo lei può succedere qualcosa in Italia? «Il pericolo c’è, di sicuro. Al momento non parlerei di una possibile guerra da noi, anche perché non avrei le competenze per farlo. Però sì, c’è il rischio che possa accadere qualcosa nelle nostre città. Quella è gente disposta a tutto per la causa. Poi, qualche parola d’italiano, la conoscevano…». Chi erano i rapitori? «Si definivano mujaheddin per la Jihad islamica. Erano giovani, dal tono di voce non avevano più di 30, 35 anni. L’età si poteva capire pure da come si muovevano, da come parlavano tra loro». Ma lei capiva qualcosa? «Un po’ di arabo lo conosco, anche se usavano un dialetto difficilmente comprensibile». Ha avuto l’impressione che dopo un po’ non sapessero più cosa farne di lei? «No, altrimenti ora sarei dentro a un sacco, morto, glielo assicuro. Gli arabi sono persone con molta pazienza. Loro aspettano: un giorno, una settimana, un mese. Per loro è uguale. Hanno una testa totalmente diversa dalla nostra. Aspettano fino a quando non raggiungono l’obiettivo». Quindi sta dicendo che è stato pagato un riscatto? «No, questo io non lo so». Quante volte è stato minacciato di morte? «Una, poco dopo che mi avevano preso. Ho pensato fosse finita. Per fortuna uno dei capi ha bloccato tutto. Evidentemente gli servivo vivo, è stata una finta esecuzione. Dopo non ho più visto armi, a parte quando mi hanno detto che potevo andarmene». Com’è avvenuta la liberazione? «Ero seduto sul comodino che avevo nello stanzino dov’ero rinchiuso. Mi avevano appena portato il caffè con qualche biscottino. Devo sottolineare che a parte i primi tre giorni non sono più stato malmenato e se chiedevo una cosa, pure coi loro tempi, ad esempio due settimane per un dentifricio, alla fine me la portavano. Nei limiti del possibile sono stato trattato con rispetto. Pensi che bussavano prima di entrare. Dicevo, poco dopo il caffè ho sentito delle urla di gioia, un gran casino, ma non credevo che mi liberassero. Mi avevano già detto altre volte che mi avrebbero lasciato andare nel giro di poco tempo. Ma per loro altri due o tre mesi sarebbero stati la stessa cosa. Sapevo che mi avrebbero tenuto fino al raggiungimento dello scopo. E io temevo davvero di dover restare ancora un bel po’ là. Invece questa volta hanno cominciato a darmi delle pacche sulle spalle: “Jalla, Jalla, vai Luca, sei libero, jalla, vai, metti la giacca della tuta, vai, la tuta Luca!”. Mi hanno accompagnato alla porta e lì ho trovato una persona a viso scoperto che mi ha portato fino al primo cambio di macchina». Cosa le rimane di questa esperienza? «In questi giorni non ci sto proprio pensando. La sto raccontando ma non ci penso. Ho scritto ogni giorno una specie di diario ma non ho potuto portarlo via, i rapitori non volevano. A livello psicologico e fisico è stato massacrante. Col tempo metterò tutto nel cassetto della memoria e terrò solo le cose buone». Vuole dire che ha pure ricordi positivi? «Ho imparato a essere paziente. Se hai bisogno di una medicina aspetti quattro giorni. Se devi andare in bagno anche un’ora. E poi durante le giornate devi sempre far qualcosa: ginnastica, scrivere, se no impazzisci al buio». In passato c’è stato chi, liberato a suon di milioni, ha subito detto di voler tornare dov’era stato rapito. «Io adesso non ripartirei. La situazione, là, è troppo complicata. C’è la guerra. Vogliono conquistare il mondo, non solo l’Italia».