La Stampa, 21 novembre 2014
«I giovani cinesi ormai si sono imborghesiti. I ricchi studiano a Harvard, al ritorno non hanno voglia di cambiare. Non ci sarà una nuova Tienanmen». Parla la scrittrice Xiaolu Guo che ha appena pubblicato La Cina sono io
Sgomberiamo subito il campo: Xiaolu Guo non è una dissidente. Non è, oggi, una di quelle intellettuali braccate da Pechino, anche se gli screzi con il regime li ha avuti per via di un suo documentario del 2004, The Concrete Revolution. Fu tirata fuori dai guai da un avvocato per i diritti degli immigrati che riuscì a riportarla a Londra dove viveva dal 2002.
Ma non pochi mugugni Guo se li è attirati fra gli alfieri in esilio della democrazia. Nel 2012, quando Mo Yan vinse il Nobel per la letteratura, lei lo difese. Lo dipinsero come timido contro il regime, per qualcuno «lo scrittore del Partito». Lei replicò: «Rispetto chi non vuole fare il martire politico». Poi se la prese con gli «snob dei diritti umani». E oggi, quando la raggiungiamo fra una presentazione e l’altra in Italia del suo ultimo libro La Cina sono io (ed. Metropoli d’Asia), sull’eterna lamentela occidentale dei diritti violati dal governo cinese, punge: «A forza di chiedere il rispetto dei diritti umani e trattare la Cina come fosse Cuba, il risultato è l’effetto contrario, un irrigidimento ulteriore». E poi su Xi Jinping, il «nuovo imperatore» cinese come lo esalta il Time in copertina questa settimana: «Vi ricordate come morivano di fame i nostri nonni 50 anni fa? Ora non è così, il livello di vita è dignitoso, abbiamo una classe media, un buon livello di istruzione», ci dice. Eppure i diritti, la lotta spietata, sin brutale, alla corruzione... «In Occidente c’è voglia di giudicare il leader, certo è normale ma sono ottimista e il mio giudizio è positivo».
L’autrice credeva nella democrazia e in libere elezioni 25 anni fa mentre il fratello faceva lo sciopero della fame in piazza Tienanmen, sfuggendo al massacro dei tank. Xiaolu Guo ci crede ancora oggi. Del suo Paese che osserva (ma ci torna ogni anno) da una casetta a East London ha un ricordo «romantico, nostalgico». Anche se la Cina di oggi misura la felicità dei suoi cittadini in Pil pro capite, si è votata al business, sa stare al mondo e dialogare – sempre più spesso – da posizioni di superiorità, economica s’intende, con gli altri Grandi inquilini del pianeta.
Eppure la dissidenza è parte integrante della vita e dell’opera di Guo. Suo padre trascorse 15 anni in un campo di lavoro solo perché amava dipingere e la Rivoluzione culturale non gradiva divagazioni dal tema. I personaggi della Cina di Guo sono artisti. Come la stessa autrice («scrittrice e regista», ci tiene a sottolineare quest’ultima caratteristica) che dalla sua vita ha attinto per tratteggiare lineamenti e comportamenti di Kublai Jian e Deng Mu. Il primo è uno storico e musicista punk figlio ribelle di un papavero, il più alto, del regime; Mu è una poetessa.
La Cina di Xiaolu Guo sono loro, innamorati lontani: lui vagabondo «sans papier» in Europa rifiutato dal Paese dopo un periodo di detenzione per aver diffuso durante uno show un manifesto che inneggiava alla perpetua rivoluzione; lei in cerca di identità in America ma incapace di staccarsi dalla patria e dagli affetti famigliari. Li separa la «Rivolta dei gelsomini» del 2011, tentativo di importare a Pechino la primavera araba, stroncato sul nascere dal governo. I giovani si radunavano nelle vie del lusso nel cuore della capitale, la polizia apriva gli idranti, allagava tutto (negozi compresi) e la forza della rivoluzione annegò in quel trucchetto tanto astuto quanto banale. Nel suo vagabondare tra Londra, Svizzera, Parigi, Marsiglia, Creta, Jian scrive a Mu. Lei risponde. Immortala i suoi pensieri sul diario. E sarà un plico di lettere recapitato a casa di Iona, scozzese traduttrice di cinese, che consentirà al lettore di ricostruire la storia dell’amore interrotto, di vedere mischiarsi vite sempre al confine tra la realtà e la finzione, di appassionarsi all’intreccio tra più livelli narrativi che alla fine cambiano (e migliorano) la stessa Iona.
Questo il romanzo d’amore. «Non è un testo politico», quasi si giustifica Guo. Ma è difficile non scorgere altro dietro l’«io» che comprime Jian e Mu, politica e apolitica, ribellione e tradizione. La Cina che ripudia il passato e vuole un altro futuro, e quella romantica. In fondo Guo scrive un inno al suo Paese non nascondendone le contraddizioni. Sullo sfondo Tienanmen, quasi mai citata ma eterno spartiacque della Cina moderna, esperienza tragica e formativa. E «irripetibile», aggiunge Guo. Perché? «Ci siamo imborghesiti, c’è una classe media sempre più forte e numerosa, siamo tutti più conservatori». E se a Hong Kong sono stati i giovani e gli studenti, come Mu e Jian nel 2011, a sfidare il regime, lo spegnersi o forse l’affievolirsi del moto di ribellione della città, Guo lo coglie al volo: «Certo i giovani sono un motore che cambia la società, ma non è solo da loro che possono venire le mutazioni; in fondo sono anch’essi élite, serve la base». L’élite ricca che studia a Harvard, «con i soldi di papà, intrisa di nazionalismo, perché mai dovrebbe riportare in Cina la voglia del cambiamento?».
E la gente? Sta meglio. Grazie a Deng, Jiang, Hu e ora Xi. Quasi due decenni di boom economico e nuovi soldi da distribuire. «Siamo sempre più come gli americani....», scherza Guo. Sogniamo il benessere, il business. Tienanmen, addio.