La Stampa, 21 novembre 2014
Il sorbo, cone le sue bacche scarlatte, colora i giardini tutto l’anno. I suoi frutti erano e sono usati dagli uccellatori per attirare tordi e merli
Il sorbo (Sorbus aucuparia) è l’albero di Papageno, il furbo e ingenuo uccellatore: le sue rosse e vistose bacche erano, e purtroppo qualche volta ancora sono, l’esca più popolare per irretire tordi, merli, cesene e tante altre vittime di uno dei più spietati passatempi di «sportivi» senza cuore. Piantato in roccoli, ragnaie e paretai, il sorbo era il degno compagno del vischio: un vero duetto di morte. Purtroppo dopo l’ultima guerra con l’uso di sofisticate reti di nailon, si è riusciti a fare delle autentiche stragi e con esse a tacitare per sempre il canto di milioni e milioni di uccelli.
Appartenendo all’eletta famiglia delle Rosaceae, il sorbo non annovera che grazia e innocente bellezza: a cominciare dalle alterne e pinnate foglie verdi scuro, e in primavera dai numerosi piccoli fiori riuniti in corimbi, che si aprono ad aprile, profumati e golosamente amati dalle api.
I frutti, le piccole bacche lucide e rosso scarlatto, sono raccolte in pesanti grappoli e colorano l’albero dall’autunno e parte dell’inverno (o, meglio, lo colorerebbero, se volatili e affini, anche se pochi, non ne facessero una ghiotta e subitanea razzia). Quella dei sorbi è una lunga e grandiosa «performance», che lo rende una delle piante più amate e diffuse nei giardini «freddi», o di montagna o di alta collina, come bene sanno gli inglesi e soprattutto i giardinieri scozzesi.
Pochissimo conosciuto è il Sorbus sargentiana, un sorbo proveniente dalla Cina, dalle montagne del Sichuan, dove cresce fino a duemila metri di altitudine. A scoprirlo in quelle terre lontane, nei primi anni del XX secolo, fu il mitico «Plant Hunter» inglese Ernest Henry Wilson, che la Cina l’aveva percorsa in lungo e in largo alla ricerca, dapprima, delle piantine di Davidia involucrata e poi dei semi del Meconopsis, il papavero dell’Himalaya. Dedicò la nuova scoperta al botanico americano Charles Sprag Sargent, suo mecenate e direttore del famoso Arnold Arboretum a Boston, che proprio in quegli anni, sotto la sua guida illuminata, era stato fondato dall’Università di Harvard.
Fu una scelta particolarmente felice quella di dedicare a Sargent una pianta come il nostro sorbo, dall’aspetto tanto rustico e selvatico: una pianta da bosco, molto più che da giardino, per ricordare chi per primo si batté, con coraggio e lungimiranza, per le native foreste americane, testimoni di una «Wilderness» che era ormai necessario salvaguardare e proteggere. A lui devono molto i parchi per cui gli Stati Uniti sono famosi nel mondo.
Quella del Sorbus sargentiana è una generosità no-stop, senza ripensamenti: in ogni momento dell’anno sa essere attraente e gradevolissimo, specialmente in autunno, quando le foglie, di poco più grandi di quelle delle altre specie, si tingono di un bel rosso-arancio-rame. Foglie, per nostra gioia e delizia, lungamente persistenti sull’albero: qui in giardino, a differenza di tutti i sorbi nostrani, che da un pezzo hanno perso la chioma, il Sorbus sargentiana continua a resistere, regalando un tardivo ed affascinante colpo di colore, quasi a ricordare che a lui soltanto, e da più di vent’anni, spetta la chiusura del violento e colorato défilé autunnale.
Più tardi, durante l’inverno, lucide come fossero laccate, le grosse gemme apicali che lo caratterizzano rispecchiano la luce del sole. Pianta resistentissima e di poco volume, il Sorbus sargentiana è sicuramente ideale per i piccoli giardini poiché riempie lo scorrere delle stagioni con un intenso susseguirsi di gradevoli momenti.
In Italia purtroppo è pianta poco comune e quindi poco conosciuta, anzi è praticamente sconosciuta: come spesso capita, bisognerebbe ricercarlo in vivai inglesi, olandesi o tedeschi. Ora, grazie a Internet, tutto è diventato molto più facile di un tempo e, soprattutto nei primi giorni freddi, vi saranno grati i pochi tordi e merli sopravvissuti. E, lo posso assicurare, non soltanto loro.