la Repubblica, 21 novembre 2014
A Roma una mostra dedicata a Norman Rockwell, illustratore dell’ottimismo americano. Esposti un centinaio di dipinti e tutte le 323 copertine che Rockwell disegnò per il Saturday Evening Post nell’arco di quasi mezzo secolo, dal 1916 al 1968
C’è una bella mostra a Roma dove si narra dell’America che crede in sé stessa, ha fiducia nel proprio futuro e nelle proprie istituzioni, si appassiona alla propria politica, pensa che “domani è un altro giorno”, e soprattutto che l’indomani sarà meglio dell’oggi. È l’imponente rassegna a Palazzo Sciarra dedicata a Norman Rockwell. Percorrerla mi ha fatto venire una nostalgia struggente di tempi difficili, ma carichi, malgrado tutto, di ottimismo e fiducia.
Da noi l’ultima volta che la speranza prevaleva così ostinatamente sulle ragioni di pessimismo del presente fu negli anni del miracolo economico. L’Europa non è mai riuscita a ritrovare l’entusiasmo (anche nella protesta) dei decenni della “crescita gloriosa”. Non è più così nemmeno per l’America. L’ottimismo delle nazioni va e viene. La crescita del Pil sembra esserne condizione necessaria. Anche se non sufficiente. Comunque non si misura con le statistiche o a suon di propaganda. Non è possibile ordinare alla gente di essere ottimisti. Se lo sono o no, lo si vede nelle piccole cose, nel quotidiano. Un profondo narratore dell’ottimismo del quotidiano è stato il nostro Eduardo de Filippo (non fatevi ingannare dall’aspetto malinconico). Anche il massimo interprete dell’ottimismo americano è un narratore. Solo che lo fa dipingendo: «Mi piace raccontare storie per immagini. Per me la prima cosa, e l’ultima è la storia», diceva Norman Rockwell. Come quelle di Eduardo le sue sono storie semplici, pacate, casalinghe, di famiglia, di quartiere. Sono ambientate in tinello, in sala da pranzo, attorno ad una tavola, o al bancone di un bar. Vogliono far ridere, o almeno sorridere. I protagonisti sono gente comune. Spesso sono dei bambini. E a ragion veduta, per compiacere il pubblico: «I ragazzini fanno ridere. Ricordano a tutti la propria infanzia… la vita vista in modo sem- plice, innocente, spensierato».
Guardando il mondo con gli occhi dei bambini, o attraverso i bambini, si possono dire molte cose. Il dipinto che fa da “copertina” alla mostra (aperta fino all’8 febbraio) è intitolato Il fuggiasco. Mostra un ragazzino minuto seduto accanto ad un poliziotto grande e grosso, visti da dietro seduti al banco di un diner. Il bambino ha ai suoi piedi un fagotto rosso. È lui il “fuggitivo” scappato di casa. Ma anziché mostri ha incontrato sul suo cammino il poliziotto forte e buono e un barista sorridente. Sappiamo già che la favola sarà a lieto fine. In questa America di Rockwell le istituzioni sono sempre al servizio dei cittadini. E funzionano. Nella più drammatica scena del dipinto che chiude l’esposizione, una bambina nera viene accompagnata a scuola da quattro robusti sceriffi. Mentre sul muro dello sfondo si notano i segni della protesta di chi vorrebbe che la scuola rimanesse per “soli bianchi”: pomodori marci spiaccicati e la scritta “Nigger”. Magari potessimo essere così ottimisti sulle periferie in rivolta contro gli immigrati.
Anche gli avvenimenti più drammatici sono a misura di “uomo della strada”, del cittadino qualsiasi. Vale per la crisi economica, per la guerra, persino per la politica. Alla mostra della Fondazione Roma sono esposti un centinaio di dipinti e ben tutte le 323 copertine che Rockwell disegnò per il Saturday Evening Post nell’arco di quasi mezzo secolo, dal 1916 al 1968. Nel 1929 ci fu il crollo di Wall Street, ma lo apprendiamo solo dal titolo di un giornale affisso sul muro, attorno al quale si accalcano personaggi visti di spalle, compreso un cagnolino. Ci sono state due guerre mondiali, ma lo sappiamo solo da vignette sul ritorno del reduce festeggiato da parenti e amici o dalla celebre serie che invita a sottoscrivere prestiti di guerra per salvaguardare le “quattro libertà” citate da un discorso di Rockwell è un pericoloso estremista: un estremista in ottimismo.
Il che comporta accuratissime messe in scena, e anche una certa dose di autocensura. «Ho sempre fatto dipinti che non disturbassero nessuno, che potessero essere capiti da tutti, e piacere a tutti», avrebbe ammesso nell’autobiografia pubblicata nel 1960.
La sua America crede alla propria Roosevelt. Anche delle atrocità della guerra in Europa apprendiamo solo dal titolo di un giornale in mano ai genitori che rimboccano la coperta dei figlioletti. Non è immaginabile che Rockwell ci raccontasse di Auschwitz, o di decapitazioni, o di stragi di rabbini che pregano. Il suo bellissimo Natale a Betlemme del 1970 ritrae un palestinese, due soldati israeliani in armi, sua moglie, i suoi figli e il suo fotografo che assistono dall’alto di un tetto alla processione cristiana soffusa in una luce fiabesca. democrazia. Crede ai propri presidenti, si chiamino Roosevelt, o Eisenhower, o Kennedy, siano di una parte politica o dell’altra. Crede alla discussione e alla scelta mediante il voto. In una copertina, ad accapigliarsi sulle imminenti presidenziali sono marito e moglie (lei tiene in mano un giornale col ritratto di Truman, lui quello del suo avversario), dimentichi del figlioletto in lacrime. Quasi una rissa da talk-show. Ma casalingo. Erano, almeno in parte, favole. Ma l’importante era che milioni di americani le vivessero davvero. Uno dei dipinti mostra un bambino (il modello è il figlio del pittore) a bocca aperta perché in un cassetto ha scoperto, protetto da palline di naftalina, un costume e una finta barba da Babbo Natale. Non è chiaro se sia deluso o solo sorpreso.
Le favole di Rockwell ebbero un seguito enorme. Il Post vendeva milioni di copie. Il New Yorker calcolò nel 1945 che lo sguardo degli americani si posava un miliardo e mezzo di volte ogni giorno sui calendari dei boyscout da lui disegnati, mentre facevano colazione a base di Kellog’s, uvetta Sun-maid e Coca-Cola sempre da lui pubblicizzati. Finché le favole su carta stampata vennero soppiantate dalla televisione.