la Repubblica, 21 novembre 2014
«Le serie tv per uno scrittore sono entusiasmanti, sono format che sviluppano infiniti punti di vista». Intervista a Elizabeth Strout, premio Pulizter 2009. Il suo romanzo Olive Kitteridge è diventato una fiction ora in onda su Hbo
Olive Kitteridge, il bestseller di Elizabeth Strout insignito del premio Pulitzer nel 2009, è diventato una miniserie televisiva in quattro parti prodotta dalla Hbo, che a gennaio arriva in Italia su Sky Cinema.
Produttrice e protagonista è Frances McDormand, che ha scritturato per la regia la Lisa Cholodenko di Grand Canyon e The Kids Are All Right, e insieme hanno costruito un ricchissimo cast, in cui spiccano Richard Jenkins, Bill Murray e Zoe Kazan. Accolta da recensioni eccellenti, la versione per il piccolo schermo – che ha debuttato negli Stati Uniti ai primi di novembre – è stata sceneggiata da Jane Anderson.
Un’operazione tutta al femminile per una sfida non facile: trasformare in linguaggio televisivo un romanzo composto da tanti racconti, tredici per l’esattezza, ambientati nel Maine. Storie di mediocrità e rassegnazione che contrastano con una natura superba e affascinante. «Sono felice ed estremamente soddisfatta», racconta la scrittrice che vive a New York, «non riuscivo a credere che sarebbe stato possibile far funzionare delle short stories in un film. Il risultato però mi sembra eccellente».
Signora Strout pensa che il cinema abbia la stessa autorità espressiva della letteratura?
«Assolutamente sì e mi dispiace che ci sia ancora qualcuno che la pensi diversamente».
Eppure molti scrittori sono ancora di questo parere.
«È un modo di giudicare vecchio e miope: ogni espressione artistica si ritiene unica e considera le altre come una forma di degenerazione».
Un film riesce a rendere le stesse emozioni e sensazioni descritte in un libro?
«Questo è un discorso che non ha nulla a che fare con la qualità. Generalmente è molto delicato trasformare in immagini l’intimità delle persone: è il motivo per cui i capolavori di Dostoevskij e Proust sono così difficili da trasporre in racconti cinematografici. È qui che entra in gioco l’abilità degli attori: nel caso del mio libro, Frances McDormand con l’espressione del volto ha detto molto più di tante parole».
Martin Amis sostiene che il cinema è efficace soprattutto quando racconta l’apparenza e il regista William Friedkin afferma che c’è un tipo di eccitazione che appartiene solo al set.
«Ripeto, secondo me è questione di talento nella recitazione».
Preferisce un regista fedele al testo o uno che faccia di testa sua?
«Se il regista è in grado di impadronirsi del libro, di farlo realmente suo, purché ne mantenga inalterato lo spirito, allora mi sta bene».
Molti grandi libri sono diventati film mediocri ma ci sono esempi contrari, come Il Padrino.
«Ci vogliono una trama solida e dei personaggi indimenticabili: Il Padrino di Mario Puzo li possedeva entrambi. Così come i romanzi di Stephen King; si può discutere se lui sia o no un grande scrittore ma certo i requisiti per trarne ottimi film ci sono tutti. Non è un caso che siano stati firmati da Kubrick, Cronenberg, Brian De Palma. Spesso, soprattutto per quanto riguarda le riduzioni di classici della letteratura, la storia è seguita con assoluta deferenza, senza originalità. Non è detto che la devozione, specie in campo cinematografico, funzioni. Anzi. Il cinema è anche stravolgimento, sorpresa. Azione».
Quali sono secondo lei gli adattamenti più riusciti?
«I morti, che John Huston ha tratto dal racconto di James Joyce rimanendo fedelissimo alla matrice letteraria. E Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan, scritto da Harper Lee».
I suoi personaggi nella versione televisiva erano diversi da come li aveva immaginati?
«Si, certo. Ogni autore ha in mente un’idea molto precisa della propria creazione. Ma i cambiamenti non mi sono dispiaciuti».
Ha lavorato alla sceneggiatura con Jane Anderson?
«No, abbiamo fatto solo una lunga conversazione preliminare: secondo lei io avrei dichiarato da subito che sarebbe stata libera di operare sul testo. In realtà non ricordo di averlo detto, ma è andata bene così».
È vero che oggi le serie tv sono un gradino più alto del cinema?
«È un’esagerazione, una moda. La qualità media di molti serial è alta, anche perché è diventato un codice espressivo molto gradito dalle star. Poi però si va al cinema, il film è bello e improvvisamente ci si trova immersi nella dimensione purificatrice dei sogni. E non è solo merito della magia della sala buia».
È positivo il fenomeno crescente della serializzazione?
«L’eterno ritorno dell’identico. Basta pensare ai feuilleton ottocenteschi, che hanno dato origine a molti capolavori. Per quanto riguarda lo strumento delle immagini, le serie televisive offrono l’opportunità di sviluppare personaggi e ambienti seguendoli e descrivendoli da infiniti punti di vista. Per un narratore è un gioco entusiasmante, ma bisogna stare attenti a non perdersi. A volte essere legati alle esigenze di un format o da una scadenza è un bene».
Che differenza c’è tra scrivere un romanzo e una sceneggiatura?
«La scrittura per il cinema è un servizio: nel momento in cui si cerca di dargli per forza una completezza artistica si rischia di perdere in credibilità. Una sceneggiatura deve servire l’immagine e costruire le basi perché sia artisticamente compiuta: anche il più efficace dei dialoghi, o la più impeccabile delle strutture narrative può essere inadeguato se non sostiene l’immagine per la quale è stato concepito».
Ma quando scrive pensa ad un’immagine o alla parola?
«Quasi sempre nasce tutto da un’immagine, a volte piccolissima, che prima diventa un’idea e poi una storia».
Come racconterebbe in una frase Olive Kitteridge?
«La storia di una donna comune, dove il termine comune è un complimento».