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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

A dieci anni dalla morte di Arafat. Breve ritratto di un personaggio camaleontico, ora euforico e convinto di avere il successo a portata di mano, ora deluso e frustrato, ma sempre pronto a tornare in campo con la vecchia energia

Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Yasser Arafat, personaggio senz’altro intrigante, ma moderato e carismatico. Con Mr. Palestina vivente sarebbe migliorato il clima politico nella sua terra in questi anni? Nell’anno 2000 vi fu una trattativa, con mediazione americana, tra il ministro israeliano Barak e Arafat avente lo scopo di creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza. Questa lodevole iniziativa naufragò quando sembrava quasi conclusa. Quale fu l’intoppo? 
Umberto Gaburro
gaburroumberto@virgilio.it

Caro Gaburro, 
Arafat non fu più «intrigante» di altri leader medio-orientali nel corso degli ultimi decenni e fu «moderato» soltanto in alcune circostanze. Ma fu certamente «carismatico». In una raccolta di interviste recentemente apparsa nelle edizioni di Jaca Book ( L’Altalena ), Antonio Ferrari, che ebbe molte occasioni d’incontrarlo, descrive un personaggio camaleontico, ora euforico e convinto di avere il successo a portata di mano, ora deluso e frustrato, ma sempre pronto a tornare in campo con la vecchia energia. A Camp David, durante il vertice ricordato nella sua lettera, Arafat, tuttavia, fu soprattutto sospettoso e reticente. 
L’occasione sembrava politicamente perfetta. Il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, era alla fine del secondo mandato e voleva che la sua presidenza venisse incoronata dalla conclusione di un conflitto che era giù durato poco meno di 45 anni. Il premier israeliano Ehud Barak era animato dagli stessi sentimenti. Le proposte di Barak e quelle ancora più attraenti avanzate da Clinton nell’ultima fase del negoziato facevano ai palestinesi concessioni migliori dei «pacchetti» discussi in trattative precedenti. Ma presentavano, agli occhi di Arafat, alcuni rischi. Limitavano fortemente la sovranità dello Stato palestinese a cui non sarebbe stata consentita, tra l’altro, la formazione di un esercito. Non davano completa soddisfazione ai palestinesi sulla questione di Gerusalemme. E Barak, infine, non aveva mai messo formalmente su carta tutto ciò che era stato offerto o promesso. A molti osservatori sembrò che Arafat avrebbe dovuto accontentarsi del risultato raggiunto e lasciare al futuro il compito di correggere e migliorare. Ma temeva di perdere il suo prestigio di grande leader nazionale e, forse soprattutto, di essere sconfessato dagli Stati arabi, come l’Arabia Saudita, che non erano disposti ad alcun compromesso sulla questione di Gerusalemme. Disse di no, alla fine, perché la posta in gioco non era soltanto la pace: era anche la sua leadership. 
Ma il leader era anche capace di gesti nobili e generosi. Nel suo libro Ferrari racconta che l’assassinio del primo ministro israeliano Ytzhak Rabin a Gerusalemme, nel novembre 1995, lo aveva fortemente addolorato. Quando apprese la notizia, «il leader palestinese uscì dalla sua villa di Gaza e, con l’aiuto di un suo fedelissimo, raggiunse segretamente Tel Aviv nel cuore della notte. Camuffato e irriconoscibile, ovviamente in abiti borghesi e senza keffiah, andò a casa del premier martire per portare di persona le sue condoglianze a Leah, la vedova».