la Repubblica, 21 novembre 2014
In Ungheria il premier Orban fa strappare le bandiere dell’Unione Europea in Parlamento. Ma la gente va in piazza contro il governo di destra: giovani, insegnanti, studenti, una rivolta partita da Budapest che ora si diffonde in tutto il Paese
“Orbán, vattene!”, gridano in piazza a decine di migliaia. A Budapest e in altre venti città. Giovani e borghesi, non solo i poveri puniti dal darwinismo nazionalsociale del regime. La nuova onda di protesta monta, domani scendono in piazza gli insegnanti. Perché per scolari e studenti poveri affamati a scuola, le collette tra professori per dar loro da mangiare, come i care-packs del Piano Marshall, non bastano più. Fine 2014, l’Ungheria non è ancora morta. Il potere risponde duro: in Parlamento il presidente dell’Assemblea, Làszlo Kover, uomo del premier, ha ordinato ai commessi in uniforme di strappare la bandiera europea che la deputata socialista (opposizione) Ildikò Bangoné Borbely, aveva in mano. Budapest da qualche mese, per ordine di Kover, è l’unica capitale Ue dove il vessillo blu con le stelle dorate non sventola più, dichiarato “sgradito”, accanto alla bandiera nazionale. Negli anni Trenta c’erano i roghi dei libri, oggi il no alla bandiera europea, e i neonazi la bruciano in piazza.
«È una nuova opposizione, volti che non avevo visto in piazza prima: giovani ben vestiti, colti e urbani, decisi ma non violenti», spiega Gyorgy Konràd, massimo scrittore ungherese. «E vanno in piazza anche gli insegnanti: non ne possono più, perché mentre Orbán va a visitare i nuovi miliardari suoi amici a Felcsùt sua città natale, i prof vedono ogni mattina i bimbi poveri addormentarsi per fame sui banchi». Mentre a Varsavia liberal crescita ed entrate tributarie volano, mentre la Romania dell’uomo nuovo Klaus Iohannis punta tutto su computer e web nelle scuole, a Budapest è fame in classe.
Orbán fa muro, il potere ha disertato la celebrazione della “rivoluzione di velluto” di Havel a Praga. Ma ora è più difficile. Putin lo loda come partner, il dittatore azero Alijev lo elogia. «Autocrazie convergenti, aliene ai valori d’Europa», dice da Vienna Pàl Lendvai, decano dell’emigrazione anticomunista e senior correspondent del Financial Times nella guerra fredda, calunniato da Orbán come «agente comunista». Un colpo alla volta alla democrazia, è la tattica: presto il 60 per cento delle banche dovranno essere ungheresi, ha annunciato Orbán contro i trattati della Ue senza i cui aiuti Budapest sarebbe al default.
«Occorrono istituzioni illiberali, il libe- ralismo non ha mai servito la nazione», aveva detto Orbán in estate. Ma lo sfida l’amministrazione Obama: leader magiari persone non grata negli Usa per corruzione, denunce quotidiane di Washington contro i colpi alla libertà, «non sono alleati Nato credibili». «Accuse false», replica Budapest chiamando i diplomatici usa “agenti Cia sobillatori”, come negli anni Cinquanta. E rifiuta alla nordcoreana di pubblicare i nomi degli indagati negli Usa: «Non è d’interesse pubblico».
Tutto è possibile, avvertono fonti diplomatiche Ue. Konràd aggiunge: «Orbán continuerà la sua danza del pavone tra corteggiamento a Putin di cui ama idee autoritarie, e segnali ai partner occidentali, ma come al poker prima o poi i bluff si scoprono». Poi aggiunge: «Gli americani si muovono, la Ue potrebbe fare di più. In nome della libertà, e chiedendo conto con rigore finanziario di chi gestisce come i suoi aiuti in un paese diviso tra miliardari amici del premier e scolari che crollano sui banchi per fame».