Corriere della Sera, 21 novembre 2014
In ricordo di Giovanni Sgambati, allievo di Litz, stimato da Wagner che s’ispirava a Mendelssohn, Schumann e Brahms
«La sua casa-museo di Piazza di Spagna, fino agli anni Ottanta conservata amorosamente dagli eredi, venne acquistata da uno stilista che fece distruggere ogni cosa». Così, con questa citazione da Wikipedia, è doveroso principiare il ricordo del sommo Giovanni Sgambati nel centenario della morte: era nato, sempre a Roma, nel 1841.
Ho scritto sovente, da ultimo nel mio libro, che il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra e la Seconda Sinfonia di Giuseppe Martucci rappresentano il vertice della musica strumentale italiana insieme con Giovanni Gabrieli e i Concerti per violoncello di Leonardo Leo. Subito dopo in ordine di valore, ma non dimenticando, ovviamente, Niccolò van Westerhout (1857-1898) con le sue due sinfonie, Ottorino Respighi, Giovanni Salviucci (1907-1937), Gino Marinuzzi e Franco Alfano, autori l’uno d’un’immensa sinfonia e di due grandissime sinfonie l’altro, viene Giovanni Sgambati con due sinfonie e un Concerto per pianoforte e orchestra che, come si dice a Napoli, va davanti al Re: e davanti al Re effettualmente stava in quanto Sgambati fu il compositore preferito della regina Margherita e per lei eseguì a corte concerti sinfonici e cameristici tali da rifondare la tradizione strumentale italiana in un’epoca che l’aveva posta in oblio.
«La vita musicale a Roma incomincia assai felicemente in questo inverno. Io spero che non avremo i soliti interminabili concerti dei soliti ferocissimi cembolanti giovinetti (ahimé, quanto attuale quest’osservazione del Poeta!). Gio-vanni Sgambati darà, con la Società del Quintetto romano, quelle meravigliose feste della grande Arte, che quanti sono maestri e intenditori in Roma rammentano con infinito desiderio». Il Duca Minimo era il critico musicale della napoletana «Tribuna» sulla quale avrebbe scritto articoli fondamentali aventi Wagner (e Federico Nietzsche) a oggetto: tutti sanno esser questo lo pseudonimo di Gabriele d’Annunzio. Nel Fuoco e nel Piacere lo ricorda del pari; la paideia musicale del Vate si deve soprattut-to a Westerhout, a Napoli, e a Sgambati, a Roma.
Non cito a caso Wagner parlando di Sgambati: il genio italiano è uno dei pochi punti sui quali Wagner e Liszt dopo la loro rottura convengono. Nel 1876 anche Richard visitò la casa di Piazza di Spagna e scrisse al suo editore, Schott di Magonza, per raccomandargli di pubblicare, il che avvenne, i Quintetti del Romano. Di Liszt questi, bimbo prodigio, era stato allievo e, in quanto direttore d’orchestra (in quanto pianista fu uno dei massimi mai vissuti), gli eseguì le prima esecuzioni italiane della Sinfonia «Dante» e del Christus. «Egli incomincia dove molti altri – non – finiscono», scrisse di lui il sacerdote-compositore. La grandezza di Sgambati, le opere sinfoniche del quale in Germania vennero dirette, tra l’altro, da Ernst von Schuch, il direttore di fiducia di Richard Strauss (poi questo posto sarebbe stato occupato da Marinuzzi), si vede anche e contrariis : dalle stroncature alla sua musica fatte da Eduard Hanslick, di Wagner e Bruckner stroncatore abituale.
Sgambati aveva profondamente assorbito soprattutto tre autori, Mendelssohn, Schumann e Brahms (laddove Martucci era affatto equidistante da Wagner e da Brahms ed errano i commentatori ad attribuire tratti brahmsiani al Secondo Concerto, che il geniale Francesco Libetta dice apparentarsi invece alla Burlesca di Richard Strauss), pur essendo allievo di Liszt: ma Liszt non era un didatta che imponesse né il proprio stile né i proprî gusti. A conoscer un po’ la produzione sinfonica di Sgambati si resta sorpresi nel vedere, a esempio, nel Poema sinfonico Cola di Rienzo, del 1866, flagranti anticipazioni della Sinfonia di Franck. Si ascoltano le sue composizioni pianistiche, occupanti ben sette compact disc nell’edizione di che ci occupiamo e otto col Concerto, contempliamo con infinita ammirazione la capacità dell’autore di rivivere con originalità i suoi modelli ispirativi: sebbene talora pagine di gusto wagneriano sorprendano per la loro forza, e mi riferisco subito all’Improvviso in Fa diesis minore.
Ora, in quest’anno centenario, si conclude la fatica di un grandissimo pianista del quale fino ad oggi non mi sono mai occupato pur essendo egli mio condiscepolo con Vincenzo Vitale e divenuto da poco amico prezioso: Francesco Caramiello. A lui già si doveva l’incisione dell’opera pianistica di Martucci; adesso, per la casa Tactus, gli si deve quella dell’opera pianistica di Sgambati (per le composizioni a quattro mani in duo con Francesco Libetta), compreso il Concerto; e le note illustrative ai dischi sono stese dal Caramiello medesimo in modo dotto e accattivante. Non saprei dire se l’ascolto di questa collana sia più un insegnamento o un piacere: tanto varia e multiforme è l’invenzione di Sgambati, sì che il considerare questo compositore soltanto per i suoi meriti storici in ordine alla musica italiana è una forte deminutio capitis : egli è tra i grandi compositori della sua epoca. Certo è che l’arte di Caramiello, il quale vive in una villa a Ercolano con cinque gatti e altri animali, è somma sia per virtuosismo che per bellezza di tocco che per arte di fraseggio: la quale oggi ha pochi pari al mondo. Chi ha fatto tanto per la cultura nazionale meriterebbe il laticlavio a vita, non chi ha insegnato come non si eseguono Verdi e Rossini. Sgambati fondò anche il Liceo Musicale di Santa Cecilia, nucleo del romano Conservatorio; ma non consta che l’Accademia di Santa Cecilia si sia preoccupata di ricordarlo invitando Caramiello.