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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

Entro primavera nove Regioni andranno al voto. Tra governatori costretti alle dimissioni e il rischi di astensione. Ecco a voi l’Italia dei venti «staterelli»

Il primo allarme suona in queste ore. Da qui a primavera nove Regioni andranno al voto, ma si comincia già domenica con la Calabria e l’Emilia-Romagna. I fardelli sulle spalle dei partiti sono gravi, il quadro da Nord a Sud è al limite dell’impresentabilità. 
Quasi tutti i governatori eletti nel 2010 sono stati spinti, se non costretti, alle dimissioni; trecento consiglieri regionali sono finiti sotto inchiesta; la magistratura ordinaria e la magistratura contabile tentano di riprendere il bandolo di una matassa che, rotolando, diventa indignazione popolare, delegittimazione del politico della porta accanto, come in una nuova Tangentopoli stavolta orizzontale, più diffusa e dunque persino più pericolosa. Delle due Regioni chiamate per prime alle urne, la Calabria è stata travolta dalla condanna del presidente Scopelliti (Ncd), che s’è preso sei anni in primo grado per abuso e falso, lasciandosi alle spalle – da sindaco – voragini nei bilanci di Reggio; sull’Emilia si è appena scaricato l’ultimo nuvolone di Rimborsopoli (brutto neologismo, per una sostanza anche peggiore): 42 avvisi di fine indagine a consiglieri di tutti i gruppi dell’assemblea legislativa per rimborsi fasulli e talvolta demenziali (un sex toy, un gettone per il wc pubblico…) piovuti sulla scena a nemmeno due settimane dal voto; con l’aggiunta, ancor più recente, delle registrazioni di Marco Monari, ex capogruppo democratico: un piccolo e inquietante bignami di cinismo. 
Se è morta la vergogna tra i rappresentanti del popolo, forse è bell’e defunta pure la pazienza tra i loro rappresentati. Così, a cominciare proprio dall’Emilia, il Pd, unico vero attore rimasto in scena, si trova davanti a un nuovo incubo: l’astensionismo persino nella roccaforte rossa. 
Graziano Delrio ha cercato di esorcizzarlo a SkyTg24 : «C’è un po’ di disattenzione in questo momento, ma i cittadini coglieranno l’importanza di questa elezione». I sondaggi però dicono altro. E dovrebbero indurre a ragionamenti più coraggiosi il partito renziano che del coraggio fa, almeno nominalmente, bandiera. 
Perché, sulle Regioni, la sinistra ha forse qualcosa da farsi perdonare. Un galantuomo come Meuccio Ruini le definì alla Costituente «l’innovazione più profonda» della Carta repubblicana, persuaso che le autonomie locali avrebbero prodotto «un ingrandimento della persona umana», e non c’è dubbio che ingrandimenti personali ci siano stati, eccome: almeno nel tenore di vita di molti eletti. 
Rimaste in sonno dal 1948 (la Dc aveva appena vinto le storiche elezioni del 18 aprile, nei successivi ventidue anni si guardò bene dal consegnare al Pci un simile contropotere locale) furono infine scongelate nel 1970, aggiungendosi a quelle a statuto speciale, sull’onda montante comunista e sul mantra del decentramento: la «profonda innovazione» cominciò a tradursi in nuovi notabilati, nuove nomenclature di burocrati, nuovi florilegi normativi. 
Ed è sempre la sinistra, qualche decennio dopo, a regalarci il mostro a venti teste che abbiamo sotto gli occhi. 
A metà anni Novanta, Umberto Bossi aveva in mano una ghiotta golden share dopo avere ribaltato il governo Berlusconi; e la sinistra allora dalemiana prima concepì il leghismo come una propria «costola», poi abbracciò l’ossimoro del «federalismo a Costituzione invariata» con la legge delega 59 firmata da Bassanini nel 1997 e un massiccio trasferimento di risorse nel nome della sussidiarietà, quindi tramutò nel ‘99 i presidenti di Regione in ras locali facendoli eleggere direttamente dal loro popolo; infine mise mano al titolo V della Costituzione nel 2001, creando venti piccoli Stati, venti sanità diverse, venti idee di turismo in conflitto, venti centri di spesa e di sperpero dei nostri soldi. 
Certo c’erano obiettivi importanti nel mirino: depotenziare la vulgata secessionista (ricordate i Serenissimi balenghi del tanketto, primavera ‘97?), erodere la base leghista, ritrovare le masse. Ma, col senno di poi, l’ha spuntata il vecchio Bossi che, coi suoi sodali, voleva semplicemente la dissoluzione della nostra patria. Purtroppo ci siamo vicini, la babele è dietro l’angolo. 
Sei italiani su dieci detestano le Regioni, ma il trenta per cento vuole che la propria Regione si separi dall’Italia, però quasi il cento per cento è legato soprattutto al proprio campanile sicché sulla falsariga del referendum «catalano», che i separatisti veneti invocano, spuntano vari mini-referendum cittadini. 
Renzi non ama le Regioni. La querelle sul taglio da 4 miliardi e quella – anche più fresca – sulle colpe del dissesto idrogeologico ne sono spie eloquenti. Sarebbe un buon risarcimento per l’Italia se il leader non comunista del partito che dal Pci ha ereditato crediti e debiti storici ragionasse sulla chiusura di questo capitolo. 
Magari aprendo un processo – necessariamente culturale prima che normativo – che accosti a quegli staterelli rissosi una parola scomoda ma forse inevitabile: abolizione.