Corriere della Sera, 21 novembre 2014
«Mio fratello da un mese combatte dentro Kikla. Facciamo insieme una settimana, uno ai fornelli e l’altro sotto il fuoco, poi torniamo a Tripoli per una doccia. Io non so sparare, lo invidio. Ma cucino. È il mio contributo per uccidere i traditori della rivoluzione, i ladri di Zintan». Così i combattenti di Dio cercano di aprirsi la via ai pozzi di gas occidentali dov’è pure l’Eni
Si stacca alle sette, col buio. Quand’è pronto da mangiare. Duemila cartoni da torta con sopra la scritta «sweet» e dentro pastina, montone e cipolle, verdurine tagliate, una mela, il succo di prugna, posate di plastica. Per chi gradisce, anche le patatine appena fritte. I miliziani islamici di Alba libica si danno il cambio ai rondò di Kikla, incappucciano i lanciarazzi, vanno a posteggiare i pick-up in un magazzino di laterizi di fronte al distributore, sullo stradone che viene dall’assedio. Lunghi tavoli di ferro nel capannone, neon bianchi, la capra d’un guerriero legata a una sedia, i racconti della guerra di giornata.
«È la mensa dei combattenti di Dio», accoglie fiero Adnan Deeb, «il Lupo», 35 anni, ingegnere petrolifero temporaneamente prestato alla causa: «Siamo cinquanta cuochi. Tutti volontari come me. O gente che paga i fornitori, come quel signore lì – ci presenta un barbuto vestito da beduino e con gli occhiali da sole, seduto fra i guerrieri —. È Amman Abu Salah, capo tribù del Sud. Viene da Sabha. Ha 66 anni. E s’è fatto mille chilometri di macchina, pur di essere con noi».
Il Lupo è fiero: «Mio fratello da un mese combatte dentro Kikla. Facciamo insieme una settimana, uno ai fornelli e l’altro sotto il fuoco, poi torniamo a Tripoli per una doccia: due giorni e siamo di nuovo qui. Io non so sparare, lo invidio. Ma cucino. È il mio contributo per uccidere i traditori della rivoluzione, i ladri di Zintan». Ma tre anni fa non erano vostri alleati?… «Quello è il passato. Dovevamo cacciare Gheddafi, tutt’insieme. Adesso Saif, il figlio, sta con loro. Finge d’essere loro prigioniero e intanto li paga perché facciano la controrivoluzione: cantano le canzoni di Gheddafi, hanno le bandiere di Gheddafi. Voi italiani, francesi, inglesi credete sempre che la Libia sia come volete voi? Buon appetito, giornalista: e scrivi almeno che noi non siamo l’Isis o Al Qaeda!...».
Dicono ciò che non sono, non quel che saranno. Le due Libie di Tripolitania e Cirenaica hanno due governi, due Parlamenti, due guerre civili. E in questo momento due offensive. Parallele. Riesplose a luglio, in singolare contemporaneità con la polveriera irachena: quella di Bengasi del generale filoccidentale Haftar contro le brigate islamiche 17 Marzo e contro i tagliatesta di Derna; questa su Kikla, i fratelli musulmani d’Alba libica che già governano Tripoli e Misurata e vogliono farla finita coi nemicissimi di Zintan, per aprirsi la via ai pozzi di gas occidentali dov’è pure l’Eni.
Kikla, diecimila abitanti, è ormai uno scannatoio, scheletri di case, gente alla fame: duecento morti e 600 feriti solo nelle ultime due settimane, e chi può scappa. Amnesty international dice che le milizie di Misurata e di Zintan stanno consumando crimini di guerra uguali e contrari: tirano sugli ospedali, torturano, uccidono sia i feriti che i prigionieri… La risposta è l’unica cosa su cui i nemici concordano: «Bugie».
Ma ora che Kikla sembra cedere, gli albisti maramaldeggiano e vogliono mostrare al mondo un volto più rassicurante: le milizie hanno le mimetiche nuove fornite dai qatarini («ma quale Qatar, leggi qui l’etichetta: made in Filippine!»), accolgono a braccia aperte Al Jazeera e i giornalisti turchi, sulle strade spalmano check-point sorridenti per ostentare la pax islamica…
A tre anni dall’uccisione di Gheddafi, si combatte tanto. E per poco: 250 euro al mese. «È quel che guadagnavo da operaio nella mia fabbrica di sapone», racconta Abdel Ghassen, 23 anni, albista di Zawiya: «Non avevo mai preso in mano un Ak47. Mi hanno addestrato tre mesi e sono venuto a liberare Kikla».
La cittadina è sotto il tiro di trincee da Grande guerra e piccola strategia: fatte con rialzi di pietre e terra indurita in sacchi di iuta «from Brazil», aiuti umanitari Onu datati 2013. La linea del fronte è 700 metri più in là, tutte le campagne intorno sono postazioni: carri armati bruciati, furgoncini Toyota portatruppe mascherati di fango rosso incrostato, la scuola elementare Mdekn 16049 mezza sfasciata e con le aule macchiate di sangue. Le stalle sono mute, i polli abbandonati, i panni nei cortili lasciati stesi.
Un capitano delle milizie, Tarek, ha l’urlo e il grilletto facile: s’aggira tra le rovine conquistate e si fa fotografare per l’opinione pubblica «kefir», miscredente, mentre disseta un gattino con una scatola per munizioni piena d’acqua. Chi abitava le case della frazione di Kharat Nasser è fuggito la settimana scorsa, mentre i soldati di Zintan si ritiravano sulla montagna. Ma anche a venti chilometri piovono i Grad e i contadini non sanno più dove mettersi: ieri nell’aia di Mohammad Shukkri ne sono arrivati sette e una scheggia gli ha centrato la gamba, «ci eravamo appena spostati qui da parenti, pensavamo fosse più sicuro, ma ce ne andremo via un’altra volta».
Il comò d’una camera da letto ha i cassetti spalancati, su un talamo sporco il dottor Ahmed Gendil, 29 anni, opera d’urgenza e spesso inutilmente: «Ci sono anche trenta feriti al giorno». Uno è lui: un proiettile ha perforato tre ambulanze, prima di trovare la sua coscia. «Rimango perché sono l’unico chirurgo nel raggio di cento chilometri». Nella sabbia, con una composizione di bossoli, qualcuno ha scritto in arabo “Viva la Libia”. Sopravviva, che è già molto.