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 2014  novembre 21 Venerdì calendario

Sul caso Eternit la Corte poteva decidere diversamente? Che colpe hanno Guariniello e la Procura di Torino? Sicuri che il vero problema sia la prescrizione? E perché Renzi si sveglia solo adesso promettendo una riforma?

Il meglio dai giornali di oggi sul caso Eternit, la prescrizione e la necessità di una riforma del sistema giudiziario.
 
«La prescrizione dei reati, che il codice di diritto penale prevede, è un’offesa al senso di giustizia o una garanzia per il cittadino di fronte alla pretesa punitiva dello Stato? Questa domanda è affiorata, evidente e drammatica, in occasione della sentenza della Corte di Cassazione che ha annullato la condanna a 18 anni di reclusione comminata dalla Corte d’appello di Torino al magnate svizzero Stephan Ernest Schmidheiny per il disastro doloso ambientale causato dall’amianto nella produzione dell’Eternit» [Cesare Mirabelli, Mes].
 
Com’era inevitabile, ieri sono esplose le polemiche, che hanno investito – nelle parole dello stesso premier Matteo Renzi – soprattutto l’istituto della prescrizione, che ancora una volta avrebbe fatto irruzione nel processo penale producendo guasti dirompenti. Di qui l’urgente necessità, si è ribadito, di cambiare le regole penali del decorso del tempo. Nella vicenda Eternit, tuttavia, la disciplina della prescrizione non è, forse, la responsabile principale dello sconcertante esito giudiziale. La cassazione ben avrebbe potuto infatti eludere, con un’interpretazione diversa della legge penale, gli effetti perversi dello scorrere degli anni [Carlo Federico Grosso, Sta].
 
Donatella Stasio sul Sole 24 Ore: «Suonano come una beffa le parole di Matteo Renzi a poche ore dalla sentenza Eternit: “Non ci può essere l’incubo della prescrizione. Bisogna cambiare le regole del gioco”. Parole sante, se non fossero pronunciate dal capo di un governo che da aprile annuncia la riforma della prescrizione, che l’ha approvata solo il 29 agosto, ma che ancora non ha fatto pervenire al Parlamento la sua proposta (pur continuando a parlarne come cosa già fatta), con il solo risultato di aver rallentato i lavori parlamentari in corso da maggio. Oggi Renzi sembra svegliarsi da un lungo torpore e accorgersi di quanto sia micidiale la normativa vigente e urgente modificarla. Parlare di prescrizione, oggi, è “popolare” e il premier cavalca il sentimento popolare nel solco della peggiore tradizione politica, quella che si accorge (o finge di accorgersi) dei problemi della giustizia solo di fronte alle (presunte) emergenze o a casi eclatanti che scuotono l’opinione pubblica, salvo dimenticarsene nel giro di poco tempo».
 
Maurizio Belpietro su Libero: «Naturalmente tutti, o quasi, se la sono presa con i giudici della Cassazione, i quali sono stati accusati di non aver avuto il coraggio di condannare un uomo ricco e potente. Ma qui non si tratta di aver coraggio. Anzi, semmai i magistrati della suprema corte di coraggio ne hanno dimostrato anche troppo, perché con l’assoluzione per prescrizione hanno sfidato il senso comune, cioè l’opinione pubblica che voleva a tutti i costi una condanna, anche a prezzo di violare il codice. Perché il problema sta tutto lì, nella legge penale, che fissa i termini di prescrizione per il reato di disastro ambientale. Superati 12 anni dai fatti, il reato non è più perseguibile. E siccome l’azienda è chiusa dal 1986, cioè ha smesso di diffondere nell’aria le polveri che provocano il mesotelioma ai polmoni (anche se i manufatti in Eternit continuano a rilasciarne), per la giustizia il reato si è prescritto nel 1998, cioè molto prima che cominciasse il processo di primo grado e che la Procura di Torino decidesse di aprire il fascicolo contro Schmidheiny per disastro ambientale. Che potevano fare i giudici se non applicare la legge e dunque chiudere il caso per avvenuta prescrizione?».
 
Di parer opposto Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: «Diciamo subito che la Cassazione non era affatto obbligata dalla legge a dichiarare prescritto il reato di disastro colposo per il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny, condannato in primo e secondo grado per la morte da amianto di 2.154 persone (bilancio parziale). Anziché allinearsi alla richiesta del Pg Jacoviello, noto annullatore di processi eccellenti, e dell’avvocato Coppi, sempre molto fortunato al Palazzaccio quando fa certi incontri, la Corte poteva sposare l’interpretazione alternativa data dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Torino, che con due sentenze molto ben motivate avevano spiegato come il disastro provocato dall’amianto, rimasto a lungo latente e poi esploso con effetti che semineranno malati e morti per tanti decenni ancora, non può cristallizzarsi – come invece ritiene la Cassazione – all’istante in cui le fibre del minerale-killer smisero di depositarsi sul terreno con la chiusura della fabbrica di Casale nel lontano 1986 (ragion per cui il reato, pur accertato, si sarebbe estinto addirittura prima del processo, che dunque non avrebbe dovuto neppure cominciare)».
 
«Ieri, sulle colonne della Stampa, Vladimiro Zagrebelsky ha ricordato una sentenza della Cassazione francese del 7 novembre, che, modificando l’interpretazione prevalente, ha stabilito un principio innovativo per evitare la prescrizione di un orrendo omicidio rimasto nascosto per anni, e cioè che i termini decorrono da quando il magistrato ne ha notizia. La Corte ha usato fino in fondo il suo potere interpretativo per dare una risposta di giustizia, nel rispetto del diritto. La legge francese prevede termini di prescrizione molto brevi (che decorrono da quando il reato è commesso) compensati, però, da un sistema di interruzioni molto elastico, per cui a ogni atto dell’autorità giudiziaria la prescrizione riparte da zero. Ciò nonostante, ci sono casi in cui il reato si scopre dopo talmente tanti anni che la giustizia ha le mani legate. Ebbene, secondo la Corte la prescrizione è sospesa allorquando un “ostacolo insormontabile” rende impossibile che il giudice proceda» [Donatella Stasio, S24].
 
Sottolinea Carlo Federico Grosso sulla Stampa che «nel processo Eternit la procura di Torino aveva contestato il delitto di disastro, reato che si realizza quando viene cagionato un evento dirompente di vaste proporzioni che crea una situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. È pacifico che a realizzare tale delitto non è necessario che si verifichi la morte o la lesione personale di qualcuno, ma è sufficiente che taluno, cagionando l’evento distruttivo – il crollo di un edificio, il naufragio di una nave, l’inquinamento di un ambiente – faccia sorgere il rischio che un numero indeterminato di persone rimanga ucciso o sia menomato nell’integrità fisica. Se per effetto del disastro si verifica la morte o la malattia di qualcuno, con il delitto di disastro concorreranno quelli di omicidio e di lesioni personali, tanti quante sono le persone uccise o comunque offese».
 
Il problema è sorto quando ci si è domandati in quale momento il reato di disastro si consumi. Secondo l’interpretazione maggioritaria della cassazione, ciò si verificherebbe quando le condotte che cagionano la situazione di pericolo (ad esempio l’inquinamento di un ambiente) vengono a cessare (ad esempio, perché l’ambiente viene bonificato o l’attività produttiva nociva viene interrotta). Secondo un’interpretazione minoritaria, la persistenza dell’insorgere di malattie o del verificarsi di decessi impedirebbe invece di considerare concluso il fatto disastroso, che rimarrebbe vivo fino a che tutte le patologie o gli eventi collegati al disastro si siano esauriti. In questa prospettiva il delitto di disastro verrebbe meno soltanto quando si sia verificato l’ultimo decesso o l’ultima malattia collegata alla situazione di pericolo.
La spiegazione tecnica di quanto è avvenuto nella vicenda Eternit risiede tutta in questa divergenza d’interpretazione [Carlo Federico Grosso, Sta].
 
Tribunale e Corte di Appello di Torino, per non considerare prescritto il reato contestato dalla Procura, avevano fatto affidamento sulla nozione di disastro «allargata» agli eventi di morte e di lesione personale. La cassazione, ribadendo quanto aveva già più volte stabilito, ha invece individuato il momento consumativo del reato in quello in cui la «fabbrica delle polveri» aveva cessato di produrre. Così individuato il «tempo del commesso reato», dichiarare la prescrizione era giocoforza sulla base di un semplice calcolo di anni, mesi e giorni trascorsi [Carlo Federico Grosso, Sta].
 
Duro con la Procura di Torino Maurizio Belpietro, che scrive su Libero: «Ce lo vogliamo dire in questo coro di riprovazione generale? Per l’assoluzione di Schmidheiny non ce la si deve prendere con i giudici della Cassazione, ma con la Procura. Sono i pm che hanno deciso di contestare al magnate svizzero il reato di disastro ambientale invece di accusarlo di omicidio volontario: il primo si estingue in 12 anni, l’omicidio invece no e può essere perseguito fino ad oggi. Sono i pubblici ministeri dunque semmai ad aver sbagliato, non certo chi si è attenuto alla legge, ed è con loro perciò che l’opinione pubblica se la dovrebbe prendere, chiedendo: ma come, non lo sapevate che il disastro ambientale era prescritto già quando avete avviato le indagini? Davvero credevate che nonostante la chiusura della fabbrica si potesse estendere la responsabilità del disastro anche negli anni successivi? Il capo delle indagini, il procuratore Raffaele Guariniello, colui che ha sostenuto l’accusa, di fronte alla sentenza che ha fatto a pezzi le sue tesi, dice che non tutto è perduto e che anzi la Cassazione conferma la colpevolezza di Schmidheiny e quindi ha annunciato l’intenzione di indagare lo svizzero per omicidio volontario di 263 persone. Ma la cosa non è affatto scontata: per la legge non si può processare due volte la stessa persona per gli stessi fatti. E in ogni caso c’è da chiedersi perché non lo abbia fatto prima».
 
Donatella Stasio sul Sole 24 Ore: «Di riforma della prescrizione (i cui termini erano stati dimezzati nel 2005 con la legge ex Cirielli) si è ricominciato a parlare fin dall’uscita di scena di Silvio Berlusconi, con i governi Monti, Letta e Renzi. Parole. Il dibattito politico non è mai decollato. Inutili le sollecitazioni di Europa e Ocse, scomodate per cambiare il reato di concussione, sebbene fosse l’ultima delle preoccupazioni nella lotta alla corruzione, ma pervicacemente ignorate sulla prescrizione, considerata invece da sempre la “priorità” per rendere efficace quella lotta. Ignorati anche i vertici della Cassazione (Ernesto Lupo e Giorgio Santacroce) e la loro richiesta ai governi di turno di farsi carico della specificità di alcuni reati che spesso vengono scoperti soltanto dopo anni da quando sono stati commessi, sicché buona parte della prescrizione si è già consumata. È il caso dei reati contro la pubblica amministrazione ma anche di altri, compreso il “disastro ambientale” contestato nel processo Eternit: proprio sul momento della sua consumazione si sono divisi i giudici di appello e della Cassazione. Così quel processo va ad aggiungersi ai 113mila fulminati dalla prescrizione».
 
Ricorda Liana Milella su Rep che il ddl sulla riforma della giustizia stagna nei cassetti di Palazzo Chigi da 90 giorni: «Dopo una giornata di fibrillazioni tra le stanze del premier e via Arenula, Renzi da una parte, Orlando dall’altra, di mezzo Maria Elena Boschi, quando è ormai sera salta fuori l’unica soluzione politicamente percorribile. Orlando decide di stralciare, dal corposo ddl che riscrive pezzi importanti della procedura penale, l’articolo 3 sulla prescrizione. Va in tv e annuncia che «la prossima settimana la prescrizione andrà in Parlamento». Promette addirittura «una rapida approvazione». Quando? Al ministero si azzarda una previsione, 4 mesi, ma pare il libro dei sogni. Di tempo ce ne vorrà molto di più, come dimostra l’avventura dell’autoriciclaggio».
 
Scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano: «Come spiega Piercamillo Davigo sull’ultimo Micromega, la prescrizione non è l’effetto dei processi lunghi: ne è la causa principale, perché incoraggia i ricorsi dilatori e le perdite di tempo degli imputati ricchi e dei loro avvocati specialisti in criminalità & impunità. Il timidissimo ddl Orlando, ove mai fosse approvato, non cambierebbe una virgola dello sconcio, che dipende da due fattori nemmeno sfiorati dal ministro della Giustizia: in Italia la prescrizione parte quando il delitto viene commesso, non quando viene scoperto; e – caso unico al mondo – non si ferma mai, nemmeno dopo due condanne di merito alla vigilia del giudizio di legittimità in Cassazione, e neppure quando uno patteggia la pena (e poi fa ricorso contro la sanzione da lui stesso concordata)».
 
Carlo Federico Grosso sulla Stampa: «Ben venga comunque, ora, l’indignazione (tardiva) dei politici per gli effetti dirompenti della prescrizione (come è stata delineata qualche anno fa dalla c.d. riforma ex Cirielli) sul sistema di giustizia italiano. Se tale indignazione dovesse condurre a riformare finalmente l’istituto in modo da renderlo adeguato ai tempi necessari a portare a termine i processi penali, l’esito della vicenda giudiziaria Eternit, al di là dello sconcerto che inevitabilmente suscita, avrebbe quantomeno prodotto un risultato positivo. Purché ovviamente, sull’onda dell’indignazione, non si finisca per cadere nell’eccesso opposto: eliminare cioè pressoché del tutto, o ridurre in modo spropositato, gli effetti estintivi del decorso del tempo. La ratio della prescrizione – e cioè non punire il delinquente che, a distanza di anni dalla commissione del reato, magari si è redento o si è rifatto una vita – mantiene infatti, intatta, la sua efficacia persuasiva» [Carlo Federico Grosso, Sta].
 
Non è stata la lentezza della giustizia a portare a questa sentenza sul caso Eternit, sottolinea Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera: «Di fronte a 3.000 morti, ogni parola rischia di suonare oscena. Ma osceno è anche illudere la gente che la prescrizione sia dipesa dalla lentezza della giustizia (tre gradi di giudizio in appena quattro anni?) o dai guasti della per molto altro nefanda legge ex Cirielli, anziché dal messianico continuo chiedere solo al processo penale ciò che fatica a dare: l’applicazione delle classiche categorie di responsabilità nate negli anni ’30, e dell’asticella probatoria più alta che nel civile (“l’oltre ogni ragionevole dubbio”), a eventi epidemiologici lesivi di un indeterminato numero di persone e svelati dalla scienza decenni dopo».
 
Scrive Cesare Mirabelli sul Messaggero: «In questo caso la pretesa punitiva dello Stato è stata esercitata tempestivamente, ma con una singolare contraddizione lo stesso Stato non è stato in grado di assicurare che il processo si concluda in tempi ragionevoli e tali comunque da non vanificare il lavoro svolto. Questo è il nodo sul quale è necessario intervenire: processi che rimangono senza colpevoli, perché la prescrizione preclude l’accertamento della responsabilità penale a meno che l’imputato non rinunci alla prescrizione, e colpevoli che rimangono senza più processo e sfuggono alla condanna. Possono essere diversamente disciplinati i tempi della prescrizione, sterilizzandone l’effetto dopo il primo grado di giudizio. Ma è illusorio pensare di risolvere o di fronteggiare con regole processuali le carenze organizzative. In definitiva non prendiamocela con l’istituto della prescrizione, che costituisce una regola di civiltà ed una garanzia per il cittadino. Ma mettiamo mano alle distorsioni che si verificano per la evidente inefficienza del sistema giudiziario».