la Repubblica, 20 novembre 2014
«Usare il campo da calcio per educare i figli». Lilian Thuram e il suo libro contro il razzismo
Lilian Thuran è un grande campione. Ha giocato per anni in Italia. Prima nel Parma e poi nella Juventus. Ma ha iniziato in Francia, nel Monaco. E ha concluso la sua carriera nel Barcellona, a 36 anni, fermato da una malformazione cardiaca. Nella sua carriera ha vinto molto. Un campionato del mondo e uno d’Europa. In Italia, due scudetti e tre supercoppe. Ma Thuram non è solo questo. Dopo, ma anche durante, la carriera di calciatore, ha contribuito, in modo, direi, militante (anche se all’autore l’espressione non piace), a promuovere l’integrazione. Sul piano sociale. Contro ogni forma di discriminazione. Contro ogni forma di razzismo. A questo fine, ha costituito una Fondazione, che porta il suo nome. E che svolge numerose attività, soprattutto in ambito educativo, nei luoghi della socialità giovanile. Non sorprende, dunque, che Thuram abbia trasferito questa esperienza in un libro, scritto in collaborazione con molti fra coloro che partecipano alla Fondazione. Intellettuali e studiosi, come Todorov e Viewiorka.Il volume ha un titolo programmatico: “Per l’uguaglianza”. È, in parte, autobiografico. In parte, analitico e riflessivo. Racconta, nei primi capitoli, la sua vicenda personale. Thuram, nato in Guadalupa, penultimo di una famiglia con cinque figli nati da padri diversi. Una condizione normale, nella terra d’origine. Ma non in Francia, dove si trasferisce a nove anni. E lì si trova, immediatamente, a porsi domande. Thuram, d’altronde, è curioso. E tutto il libro è una sequenza di domande. Che nascono dalla sua esperienza. E riguardano, dapprima, la “differenza” – vistosa – fra il suo modello di famiglia e quello dei compagni di scuola e di gioco. La sua famiglia, d’altronde, si regge e si fonda sul ruolo della madre. Per questo Thuram afferma di aver voluto figli «molto presto, forse, inconsciamente, per essere il padre che non avevo avuto». Al tempo stesso, è in Francia che l’autore scopre la questione del razzismo. Perché «è stato al mio arrivo a Parigi che sono diventato nero». Prima, non si era mai posto il problema. Ma a Parigi il colore della pelle è causa di stigmatizzazione. La differenza diventa diversità. Tuttavia, «non si nasce razzisti, lo si diventa», sottolinea Thuram. È una costruzione sociale che si trasmette di generazione in generazione. Fino a divenire «un’abitudine, un riflesso inconscio». Il calcio, nella visione di Thuram, serve a spezzare quest’abitudine. Questo pregiudizio, dato per scontato. Perché «dopo la scuola, il campo è il luogo più importante dove si educano i figli». Ma il calcio è anche uno spazio pubblico, un teatro che permette di comunicare valori, in modo «esemplare». Thuram, non a caso, ha messo in scena, in diverse occasioni, la tolleranza, denunciando apertamente l’intolleranza. Come nel 1998, quando polemizzò con Jean Marie Le Pen, che criticava il numero eccessivo di “neri” presenti nella nazionale di calcio. Gli replicò, allora, che per far parte della nazionale, non conta essere neri o bianchi. Ma francesi. Ma anche di recente, è intervenuto criticamente contro l’allenatore del Bordeaux, Willy Sagnol, che aveva recriminato contro il ricorso al «giocatore tipico africano, che ha il vantaggio di costare poco, al momento dell’acquisto, e di essere pronto alla lotta, sul terreno di gioco». Ma non sarebbe altrettanto intelligente e tecnico. Parole in libertà, ha osservato Thuram, che rinforzano pregiudizi antichi e resistenti. Parole che, peraltro, echeggiano discorsi pronunciati da figure autorevoli del nostro calcio. Impossibile non rammentare Carlo Tavecchio, quando, alcuni mesi fa, parlava degli «Opti Pobà, che prima mangiavano le banane e oggi giocano alla Lazio». Tavecchio è divenuto presidente della Federazione Italiana di Calcio. Nonostante (non oso dire: grazie a) quella battuta. Perché in Italia non vedo – non ci sono testimoni della tolleranza e dell’integrazione, come Thuram. Fra i dirigenti, gli allenatori e gli stessi giocatori. Anche se tutte le squadre, ormai, sono multietniche. Per questo, il libro di Liliam Thuram è utile. Perché, al di là del valore letterario, restituisce al calcio il valore della relazione e dell’integrazione. Andrebbe, dunque, adottato e letto dove si insegna – e dove si insegna a insegnare – calcio. A Coverciano, anzitutto. Infine, un consiglio: a Natale regalatene una copia a Tavecchio.