la Repubblica, 20 novembre 2014
Grandi banche in fuga, la Scozia e l’Irlanda per conto proprio, decine di miliardi in fumo e il Regno Unito ridotto ad una “Little England”. Ecco cosa accadrebbe se Londra divorziasse da Bruxelles
L’Irlanda del Nord indice un referendum per la secessione, lascia la Gran Bretagna e si ricongiunge alla repubblica irlandese. La Scozia organizza un secondo referendum per l’indipendenza, questa volta stravincono i sì e diventa una nazione sovrana. Il Regno Unito si rimpicciolisce in una Little England fatta soltanto di Inghilterra e Galles. Le grandi banche trasferiscono la sede da Londra a Francoforte e Ginevra, con un esodo che priva la City di migliaia di posti di lavoro. A causa delle tariffe doganali che è ora costretta a pagare sul 53 per cento delle sue esportazioni destinate al di là della Manica, l’economia britannica entra in recessione. Per non pagare il dazio, investitori stranieri come Toyota e Nissan spostano le fabbriche sul continente. Due milioni di cittadini dell’Unione europea sono costretti a chiedere un visto e un permesso di residenza per continuare a vivere e lavorare in Inghilterra, quelli che non l’ottengono vengono caricati su navi davanti alle bianche scogliere di Dover e rimpatriati forzatamente verso la nazione di provenienza. Due milioni di inglesi rischiano di perdere il diritto di vivere e lavorare in Europa. Privato del sostegno della sua tradizionale roccaforte scozzese, il partito laburista non vince più un’elezione ed è condannato all’opposizione perpetua. Intanto l’Ukip, il partito populista anti-europeo, sbaraglia i conservatori alle urne e il suo carismatico leader Nigel Farage entra a Downing Street come nuovo primo ministro.Fantapolitica? Niente affatto: bensì “Brexit”, acronimo di “Britain exit”, la Gran Bretagna che esce dalla Ue e se ne va per conto proprio, ovvero quel che potrebbe succedere tra due anni e mezzo come conseguenza del referendum sull’Unione europea promesso da David Cameron al proprio paese. Esagerazioni? Mica tanto: la proposta di rimpatrio forzato degli immigrati comunitari è arrivata ieri da Marck Reckless, candidato dell’Ukip nell’elezione suppletiva per un seggio della camera dei Comuni che si tiene oggi a Rochester. Ha scatenato un tale polverone di polemiche da indurre l’Ukip a smentire che caricare gli immigrati sulle navi e rispedirli al mittente sia un suo programma politico, ma dà la misura di come molti inglesi oggi vedono l’Europa: un invasore, uno straniero, un nemico.Quando il premier conservatore britannico ha spregiudicatamente giocato la carta del referendum, aveva due obiettivi. Il primo era intimorire Bruxelles con la prospettiva di un ritiro britannico dall’Unione per ottenere le concessioni che pretende su immigrazione, giustizia e maggiore autonomia. Il secondo era respingere la minaccia interna dell’Ukip, dimostrando ai propri elettori che anche i Tories fanno la voce grossa con la Ue e che dunque non c’è bisogno di andare dietro a un pifferaio magico irresponsabile come Farage. Fino a non molto tempo fa Cameron ha sempre sostenuto che il suo piano era battersi per «restare dentro a un’Unione riformata». Ma i referendum sono rischiosi e incontrollabili, come lui stesso si è reso conto in settembre, quando improvvisamente i sondaggi hanno segnalato che in Scozia gli indipendentisti erano in vantaggio e Downing Street è dovuta correre ai ripari offrendo agli scozzesi praticamente tutto quello che volevano a patto che non uscissero dalla Gran Bretagna.Persuadere i cittadini britannici a non uscire dall’Ue potrebbe risultare ancora più difficile. Bruxelles ha per il momento risposto picche a tutte le richieste di concessioni di Cameron. L’Ukip, anziché perdere consensi, li aumenta di mese in mese: ha vinto un’elezione suppletiva, oggi ne vincerà una seconda (portando così i suoi primi due deputati al parlamento di Westminster) e continua a crescere nei sondaggi sulle elezioni della primavera prossima. La stampa popolare è di giorno in giorno più eurofobica, invocando la diversità britannica. E lo stesso Cameron vacilla. Il premier ha ormai cambiato linea: «Non sarei disposto a lottare in qualunque caso per tenere la Gran Bretagna in Europa», afferma adesso. Alcuni dei più autorevoli membri del suo partito e del suo governo sono ancora più espliciti, come il ministro degli Interni Theresa May, che dichiara spavalda: «Dobbiamo essere pronti a uscire dalla Ue». Se è un bluff, suona maledettamente sincero. «C’è il 50 per cento di probabilità che il Regno Unito abbandoni l’Unione europea», avverte l’ex premier conservatore John Major. «A life outside of Europe», titola il Guardian, provando a immaginare come sarebbe «vivere fuori dall’Europa». L’ipotesi non è più così fantasiosa. «Una volta l’euroscetticismo era poco più di un tic e la prospettiva di una nostra uscita dalla Ue sembrava seria soltanto a qualche arcigno conservatore», commenta Mark Leonard, il politologo che ha coniato il termine “Cool Britannia” e dirige lo European Council of Foreign Relations. «Ora è una possibilità sempre più concreta».Naturalmente non è detto che, se nel 2017 un referendum sancirà il divorzio della Gran Bretagna dalla Ue, sarebbe una separazione totale. Londra potrebbe non essere più un “membro” dell’Unione, ma tenerci un piede dentro: «Come la Norvegia, che appartiene all’Area economica europea, dunque fa parte del mercato comune», osserva l’analista Larry Elliott, «ma il prezzo è che Oslo deve accettare le leggi e le regole della Ue senza avere diritto di parola su come vengono approvate». Un altro eventuale modello è la Svizzera. Non perde occasione di citarlo ironicamente Farage, il leader populista dell’Ukip: «Se per uscire dall’Europa finiremo al livello economico degli elvetici, ci faccio la firma». Il governo di Berna non fa parte della Ue e nemmeno della EEA, ma ha negoziato accordi con Bruxelles che gli danno accesso al mercato europeo per le sue esportazioni senza pagare dazio. Tuttavia anche la Svizzera, come la Norvegia, deve contribuire al budget dell’Unione.«Come che sia», avverte il columnist filo-europeista Michael White, «ci sarebbero conseguenze anche per l’Europa, non soltanto per noi»: movimenti populisti in altri paesi proverebbero a indire referendum per lasciare la Ue sull’esempio di Londra. «Inoltre non è detto», ammonisce il commentatore, «che la Ue senza la Gran Bretagna funzionerebbe necessariamente meglio». Sarebbe più omogenea, ma perdere uno dei pesi massimi continentali non sarebbe psicologicamente positivo per gli altri 27, a dispetto del ruolo di perenne bastian contrario giocato dai britannici. «Il resto d’Europa reagirebbe con un misto di preoccupazione e rabbia», commenta il think-tank Open Europe, «ci sarebbe senz’altro chi vorrebbe farla pagare a Londra per il dispetto fatto al continente». E anche l’America non la prenderebbe bene, come Obama ha ripetuto più volte: preferisce avere l’alleato britannico dentro la Ue, per poterla influenzare, non sa più che farsene della “relazione speciale” Washington-Londra, eccetto forse che nel campo dello spionaggio. Per il resto ormai la Casa Bianca chiama Berlino, se in Europa ha bisogno di qualcuno.Dati alla mano, la Confindustria britannica sottolinea che stare nella Ue aggiunge tra i 62 e i 78 miliardi di sterline all’economia del Regno Unito: andarsene, afferma in coro il grande business, sarebbe un disastro. Charles Grant, direttore del Center for European Reform, centro studi moderatamente pro-europeo, sostiene che la verità sta in mezzo: una Gran Bretagna fuori dall’Europa non sarebbe una tragedia, come dicono i pessimisti, e nemmeno il bengodi promesso dagli ottimisti. «Ma il fatto è che la questione dei pro e dei contro geopolitici ed economici è troppo complicata», sostiene l’economista Larry Elliott sul Guardian. «L’uomo della strada, quando verrà il momento di decidere, deciderà con la pancia, d’istinto, non con la testa». Proprio per questo che il pericolo di un “Brexit”, di una Gran Bretagna che se ne va a stare per conto suo, non è più soltanto fantapolitica. La pancia potrebbe portarla ben al di là di quelle che erano le intenzioni di David Cameron, quando ha promesso un referendum sull’Europa.