La Stampa, 20 novembre 2014
Gli operatori dei call center in sciopero domani contro il Jobs Act. La riforma rischia di rendere inutile l’intesa del 2013, che dà più garanzie. «Così si cancellano i nostri contratti. Basta licenziamenti e gare al ribasso»
Tiziana s’è diplomata nel 1998. Geometra. «Nell’ottobre 2000 ho iniziato a lavorare in un call center. Pensavo fosse un impiego transitorio, ma sono rimasta lì. È anche così che sono riuscita a costruirmi un futuro». Nello stanzone che affaccia sulla strada risponde alle richieste di assistenza tecnica e smista informazioni a chi chiama. «Serve professionalità», spiega. Per tenersi il posto, però, non basta. «Il nostro lavoro è diventato sempre più stressante: non abbiamo stabilità, siamo sempre a rischio. Basta che l’azienda perda una commessa e me ne vado a casa: quindici anni fa avevo stimoli, adesso ho paura». E dire che di conquiste, dal 2000 a oggi, ce ne sono state parecchie. L’ultima, nel 2013, è il contratto – a progetto – di categoria: minimo garantito, welfare, condizioni uguali per tutti. Un traguardo che, paradossalmente, il jobs act rischia di spazzare via, cancellando i contratti precari. Difficile che le aziende decidano di assumere tutti. E così, domani, gli operai della fabbrica delle voci saranno in piazza: contro le nuove incertezze, contro le imprese che delocalizzano, contro gli appalti al ribasso.
L’appuntamento è in Piazza della Repubblica, Roma: «Una notte bianca» per farsi ascoltare dalla politica.
La mobilitazione
All’appello lanciato dalle segreterie Nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno risposto subito i ragazzi di Almaviva, Palermo: l’azienda, in una lettera inviata al Comune, ha appena annunciato il rischio di «esuberi strutturali» per oltre 3 mila lavoratori, 2 mila a tempo indeterminato e oltre mille a progetto. La commessa con Wind scade a marzo, pochissimi margini per trattare. Ancora meno speranze per i 262 operatori di Accenture. British Telecom s’è sfilata, e la vertenza sembra senza sbocchi. «Quei lavoratori sono stati buttati nell’immondizia», dice il segretario dell’Slc Cgil di Palermo, Maurizio Rosso. In viaggio verso Roma ci sono pure i rappresentanti dell’E-Care di Cesano Boscone: per 489 di loro le lettere di licenziamento sono arrivate dopo l’estate.
Il settore in difficoltà
Sei anni fa «Tutta la vita davanti», il film che ha lanciato Isabella Ragonese, accendeva la luce sul pianeta call center. Ritmi ossessivi e tanto precariato, ma pure una speranza per chi – tra gli studi e il lavoro – aspettava un’occasione vera. E pazienza se l’occasione non arrivava: un posto da telefonista si riusciva a rimediare. Non è più così, la grande crisi e la delocalizzazione selvaggia rischiano di sbranarsi il settore. E le prospettive sono nerissime.
Il mercato drogato
Per capire le ragioni della crisi bisogna fotografare il settore, spaccato a metà: da una parte i servizi inbound, quelli a cui si rivolge il cliente per informazioni e assistenza, dall’altra quelli outbound, che si occupano di chiamare, proponendo offerte e soluzioni commerciali. Una distinzione fondamentale, visto che sono di fronte a difficoltà diverse. «I primi sono tutti in appalto – spiega il segretario nazionale Slc Cgil, Michele Azzola -. Le aziende cambiano continuamente fornitore, a caccia dei prezzi migliori. La conseguenza è una crisi occupazionale fortissima. A drogare il sistema, inoltre, concorrono gli incentivi pubblici, che durano tre anni: i gruppi assumono, prendono i bonus e, quando finiscono, mettono tutti in mobilità. Una stortura che, nel corso degli anni, ha scatenato una corsa al massimo ribasso». Prima spostando le sedi al Sud, poi all’estero: i call center che chiamano l’Italia dall’Albania sono una sessantina.
Il rischio della riforma
Per i servizi outbound, invece, il nodo è il contratto. «Ai tempi della legge Fornero è stato deciso che per quest’attività, sostanzialmente di vendita e pagata a risultato, si possano usare collaboratori a progetto, però con un minimo contrattuale», racconta Umberto Costamagna, titolare della Call & Call e presidente di Assocontact. La soluzione? Un accordo «storico» con i sindacati per firmare il primo contratto nazionale di categoria, che riguarda oltre 30.000 addetti. Ora, però, proprio durante le trattative per migliorare l’intesa, piomba il jobs act.
«Siamo in confusione- dice Costamagna -. Dovremo avere tutti dipendenti? Ci facciano sapere, quest’incertezza ci spaventa e rischiamo un pasticcio enorme. Non vorrei che, anche chi è stato in grado di resistere, tra qualche mese si trovasse costretto a tirare giù la saracinesca».