Il Messaggero, 20 novembre 2014
Ancora Pino Pelosi e il delitto Pasolini: «La cena con Pier Paolo e quelle foto sparite. Voglio chiedere ai magistrati che fine hanno fatto, insieme al verbale in cui si diceva di una Giulietta ritrovata al Tiburtino»
Trentanove anni dopo c’è ancora un fascicolo aperto e un magistrato che sta indagando. E già questo basterebbe a gettare altra ombra su quella che rimane una delle pagine buie della nostra storia. In procura sono state già sentite decine e decine di persone, come se quel sangue e quel delitto risalisse a ieri e non alla notte di Ognissanti del 1975. Il fornaio sottocasa, l’amico d’infanzia, il carabiniere infiltrato, il carrozziere, i parenti, la fidanzatina dell’epoca, che ora è una signora e ha più di cinquant’anni. É stato convocato persino uno dei ragazzi di vita che lo scrittore, nato a Bologna ma friulano, descrisse nei suoi libri ambientati nelle borgate, quando delle periferie romane – tante Tor Sapienza in divenire – scriveva solo PPP o quasi.
Il magistrato li ha chiamati tutti, tranne lui, che ha lasciato per ultimo. Pino Pelosi, l’unico condannato per un omicidio che si trascina dietro una schiera di presunti colpevoli: massoneria, picchiatori fascisti, mafiosi, poteri forti.
Pelosi, il caso non è ancora chiuso.
«E menomale..!».
Le chiederanno di nuovo di ricostruire quella notte.
«Anch’io avrei delle domande da fare al magistrato».
Quali?
«Ad esempio che fine ha fatto la mia foto mostrata al Biondo Tevere dove cenammo con Pasolini? E quel verbale in cui si parlava di una Giulietta ritrovata in via Tiburtina».
Perché sono cosi importanti?
«É una delle cose che dirò al magistrato»
La presenza. accertata dai Ris dei carabinieri, di un Dna diverso è la conferma che all’Idroscalo non eravate soli. Non è molto ma è già qualcosa, un’altra verità.
«La verità bisogna ancora trovarla. E la sanno i 3mila che hanno comprato il mio libro («Io so come hanno ucciso Pasolini», edizioni Vertigo, ndr).
Dovevate recuperare le bobine di “Salò” che i Borsellino avevano rubato alla Technicolor. Un tranello organizzato più in alto.
«Andò così... almeno credo».
Si è parlato di una seconda macchina, simile a quella di Pasolini. E di un carrozziere che il giorno dopo avrebbe dovuto ripararla e non lo fece.
«C’erano due macchine e almeno 6 persone, compresi i Borsellino che arrivarono in moto. Uno con la barba mi teneva fermo».
Ma gli unici nomi che lei ha fatto si riferiscono a persone morte e sepolte. Pace all’anima loro.
«E se sono morte, scusi, è forse colpa mia...?».
Per anni lei ha taciuto. Come facciamo a crederle?
«Sei mai stato in un carcere? Minacciavano di morte me e i miei genitori».
Finché qualcuno molto vicino a Licio Gelli, consigliò a sua madre di affidarsi a Rocco Mangia, stesso avvocato dei “mostri” del Circeo.
«All’epoca non sapevo neanche cos’era la massoneria...figuriamoco il resto. Ma parliamo di adesso: ho 58 anni, lavoro in cooperativa, ho fondato la onlus Pace del mondo, lavoriamo anche per i disabili».
Non ha mai voluto fare il nome di Johnny lo Zingaro (Giuseppe Mastini, ndr), un collaboratore di giustizia che secondo i due Borsellino quella notte era lì.
«Ancora co’ ’sto Johnny... uffaaa!».
Ha di nuovo paura?
«No, adesso non mi fa paura pù niente».