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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

Gli ottant’anni di Kurt Hamrin, lo svedese che fece grandi Fiorentina e Milan. Giocava col pallone e con l’armatura degli hockeysti su ghiaccio, guadagnava 15 euro (di oggi) a partita e lavorava in tipografia come zincografo. In seria A segnò 190 gol

Ottant’anni sulla fascia destra. Numero 7, roba smarrita tra esterni, ripartenze, diagonali, densità, uno contro uno. Kurt Hamrin fa festa a Coverciano che poi è Firenze, città di tutti quelli che amano l’Italia e l’arte e, voglio dire, la vita. Almeno quella di un tempo, il tempo nel quale Kurt lasciò la Svezia per andarsene a Torino nella Juventus che lo pagò 15mila dollari. Viaggio in aereo, scali vari tra Copenhagen e Milano, quindi autovettura verso la Fiat e Gianni Agnelli al quale il responsabile della filiale di Stoccolma aveva segnalato il ragazzino. 
Il football del suo paese non prevedeva il professionismo duro e crudo, Kurt guadagnava 15 euro, di oggi, a partita, dunque doveva lavorare in tipografia come zincografo, giocava col pallone e con l’armatura degli hockeysti su ghiaccio, il suo maestro di sport, Kaufeldt, 6 volte capocannoniere del campionato e bronzo ai Giochi del ’24, gli aveva predetto un futuro da campione. Cosa che sarebbe accaduta. 
La Svezia era la terra dei sogni italiani. Non soltanto nel football, con Nordahl, Liedholm, Praest, ma con le svedesi che facevano girare la testa. Era la moda. Kurt Hamrin resta un caso a parte, non per gli anni ottanta che va a celebrare oggi ma per la discrezione della sua esistenza e del suo football, l’impercettibile passo, come un uccellino, come lo definì un collega fiorentino, Beppe Pegolotti, un biondino che svolazzava, segnando gol, tantissimi: 190 in A, Padova, Juventus, Fiorentina, Milan, Napoli le sue ditte di lavoro, 1 scudetto, 1 coppa dei campioni, 1 coppa delle coppe con il Milan, e vicecampione del mondo nel ’58 contro il Brasile. Molto per un ragazzo che aveva caviglie di cristallo, come dissero a Torino spedendolo, frettolosamente, a Padova. Nereo Rocco lo chiamò faina prima che a Firenze lo ribattezzassero come detto. Faina, veloce, agile, rapace in un football umano.
Hamrin era ala destra, termine calcistico trapassato di moda nel frullatore contemporaneo dove tutto è niente ma il niente viene spacciato per tutto. Hamrin era dribbling, ma proprio con lui, prima dei tempi odierni, si poteva dire che saltasse l’avversario. Non aveva forza esplosiva ma sapeva sfruttare l’energia per andare in gol. Come ha raccontato a Gianni Mura, sono stati 4 i suoi maestri di football: il citato Kaufeldt, poi Hidegkuti, il tecnico ungherese per due anni alla Fiorentina, quindi Chiappella e Rocco che lo rivolle al Milan. Come molti altri sodali suoi, forestieri di ogni dove, da Liedholm a Pesaola, da Suarez a Sormani, da Juary a Barbadillo, ha scelto l’Italia che noi italiani non amiamo come dovrebbe e come dovremmo. Kurt Hamrin è rimasto uccellino. Noi siamo diventati avvoltoi.