La Stampa, 19 novembre 2014
I 50 giorni di Hong Kong, tra mafia e illusioni. C’erano gli studenti nonviolenti e chi veniva pagato 80 euro per partecipare agli scontri
Sono passati cinquanta giorni da quando, il 28 settembre, un gruppo di studenti ha occupato alcune strade del centro di Hong Kong. Il movimento degli Ombrelli mostra adesso segni di smarrimento. Mentre la questione ucraina è stata al centro dell’agenda dell’ultimo G20, nessuno vuole irritare il presidente della Cina Xi Jinping con domande scomode su Hong Kong. I ragazzi e le ragazze di questa città affrontano da quasi due mesi la seconda potenza mondiale, le botte della polizia e le incursioni della mafia locale con la sola forza delle loro convinzioni.
Ma possono essere fieri di se stessi: sono l’ultimo anello di una catena che inizia con la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e comprende tutti coloro che hanno combattuto per un principio semplice e universale, la democrazia rappresentativa.
Nonviolenza
A differenza di altri protagonisti di una storia benemerita iniziata tre secoli fa, gli studenti di Hong Kong hanno adottato il metodo della nonviolenza e tra i loro leader vi sono donne coraggiose.
Yvonne Leung è la presidente dell’associazione degli studenti dell’Università di Hong Kong, dove si sta laureando in giurisprudenza, e ha partecipato agli inconcludenti incontri col governo. Porta i capelli lunghi sciolti e un paio di occhiali neri che inquadrano uno sguardo insieme attento e timido. Indossa jeans cortissimi e una maglietta nera con stampato il nastro giallo simbolo del movimento. La incontro a Mong Kok, uno dei tre punti della città occupati dalle proteste. Mong Kok è un quartiere molto diverso dall’elegante zona di Admiralty, di fronte agli uffici del governo, dove è accampato il grosso degli studenti. Qui gli occupanti non arrivano al centinaio, guardati a vista da decine di poliziotti. Le tende di notte non sono più di venti. A Mong Kok la mafia locale gestisce centinaia di bordelli e i mercati degli ambulanti. Controlla anche i minibus privati che, per pochi dollari, scorrazzano tra la penisola di Kowloon e l’isola di Hong Kong.
La battaglia di Mong Kok
Una delle ultime iniziative dell’amministrazione inglese è stata quella di riqualificare alcune strade della zona, promuovendo la costruzione di grandi magazzini e hotel di lusso. Ma le principali attività criminali si sono solo spostate di qualche centinaio di metri e le Triadi continuano a riscuotere il pizzo sulla maggior parte delle attività economiche.
Appena può, Yvonne viene a Mong Kok e si siede nella tenda che serve come quartiere generale della Federazione degli Studenti. «Ero proprio su questo incrocio anche il 3 ottobre, quando centinaia di energumeni coperti di tatuaggi ci hanno attaccato». Quel giorno la polizia lasciò che studenti e cittadini venissero malmenati da bande organizzate. Molte ragazze erano nella prima fila del cordone che proteggeva lo spazio occupato e sono state aggredite, palpeggiate e picchiate. «Non abbiamo reagito con altra violenza, siamo rimaste a braccia conserte per proteggere il seno e abbiamo cercato di sorridere, e di parlare». La battaglia di Mon Kok è durata diverse ore, senza che nessuno degli aggressori venisse fermato. «In quei momenti ho visto cose terribili e ho avuto paura».
Pochi giorni dopo l’incontro con Yvonne, un esponente delle Triadi di Mong Kok ha accettato di farsi intervistare. Il mio contatto passa attraverso l’industria cinematografica, che notoriamente ha legami con la criminalità organizzata. Tak – questo il nome di fantasia – riscuote il pizzo nella zona. Ci tiene a far sapere che non è affatto contrario al movimento per la democrazia, anzi spesso si ferma di notte nelle aree occupate per dare una mano agli studenti. «Nelle Triadi ci sono persone di tutti i tipi, alcuni hanno una coscienza, altri pensano solo a fare soldi».
Pagati per picchiare
In ogni caso conferma di aver ricevuto, la mattina del 3 ottobre, un sms da un boss molto importante. «Ci offriva dagli 800 ai 1.200 dollari di Hong Kong (80-120 euro) per partecipare agli scontri». Poiché la cifra era irrisoria, nessuno del suo gruppo si è mobilitato. «Solo dei teppisti che risiedono vicino al confine con la Cina – nei cosiddetti Nuovi Territori – hanno accettato. Sono certo che erano tutti originari di Hong Kong, ma nessuno è venuto di sua spontanea volontà. Era un attacco organizzato e pagato dai grossi boss».
Wing Chung, professore di scienze sociali alla City University di Hong Kong ed esperto di movimenti collettivi, mi spiega che una tattica delle autorità cinesi consiste nell’utilizzare piccoli delinquenti per aggredire manifestazioni pacifiche. «Invece di usare la polizia, preferiscono mobilitare le gang, e lo stesso è accaduto a Mong Kok». I soldi per l’attacco furono offerti dai boss, ma molti sospettano che dietro vi fossero dei ricchi imprenditori con favori da restituire al governo. Osservatori come Ho Wing Chung puntano il dito contro i costruttori che hanno di recente ottenuto il permesso di edificare su terreni espropriati ai residenti dei Nuovi Territori, una vicenda scandalosa narrata in maniera molto efficace nel film «Overheard 3» (Tak sostiene che il film è accurato in ogni particolare).
Eppure l’aggressione mafiosa a Mong Kok non ha avuto l’effetto sperato. Tak conferma che le Triadi sono rimaste stupite dalla reazione degli studenti. «La violenza contro i ragazzi non ha funzionato. Si sono stretti tra loro, hanno preso le botte e il cordone di difesa non si è rotto. Alla fine gli attaccanti si sono dovuti ritirare. La polizia era molto arrabbiata perché hanno fatto una figuraccia e ci hanno fatto sapere di non fare più cose simili, altrimenti ci chiudono i locali di Mong Kok».
Il «villaggio»
Dopo la visita a Mong Kok sono tornato ad Admiralty, di fronte al palazzo del governo, dove per una settimana ho incontrato gli studenti. Lì, hanno costruito un vero e proprio villaggio con centinaia di abitanti. Ogni tenda ha un numero che permette a un rudimentale sistema postale di distribuire lettere e messaggi. Di giorno ragazzini con il vestito della cerimonia di laurea si fanno fotografare sotto lo scalone dedicato a John Lennon. Verso le sei di ogni sera, un leader del movimento racconta gli eventi della giornata, poi ognuno fa qualcosa di utile.
C’è chi fa lezione, chi organizza discussioni sui classici della filosofia politica, chi si prende cura di un piccolo orto creato su un marciapiede. Un falegname ripara le barricate e costruisce dei piccoli mobili, mentre uno studente della mia Università distribuisce un sondaggio. Il movimento non accetta donazioni in denaro ma solo beni materiali, come coperte, batterie elettriche e cibo. Di notte i ragazzi fanno i compiti nella zona studio, rifocillati dai pasticcini offerti da una signora di mezza età. Piccoli cartelli gialli, in decine di lingue, recitano: «Sostieni la democrazia a Hong Kong», di fianco a testi di Nelson Mandela e Gandhi.
Nonostante le molte banalità che si leggono sui giovani nati con l’Ipad, assorbiti da chiacchiere virtuali, questa generazione non conosce alcuna contraddizione tra impegno diretto e presenza sul web. Tutti hanno un cellulare o un computer dove scrivono, leggono, ascoltano musica, riprendono se stessi e il mondo che li circonda. Di notte un proiettore rilancia sul muro di un palazzo governativo i messaggi Twitter indirizzati ad #OccupyCentral.
I rischi non mancano. Una sera un gruppo di giovani che indossano la maschera degli hacker Anonymous fa irruzione nel villaggio della democrazia e cerca di forzare il cordone di sicurezza. La polizia carica colpendo anche chi si trova in mezzo.
L’impasse
Vi sono anche rischi strategici e di lungo periodo. Il movimento ha raggiunto un’impasse e non sembra sapere come affrontare il futuro. Nel frattempo le strade vengono sgomberate dalla polizia. Ma qualunque sarà l’epilogo, un obiettivo è stato raggiunto. Da cinquanta giorni mafia, malaffare e una superpotenza sono impotenti di fronte alla richiesta ferma e gentile di Yvonne e delle sue compagne: una persona, un voto.