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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

Miró con la compagnia dei Balletti russi e Max Ernst alla stazione di Montecarlo nel ’32; ancora, visto da Man Ray nel 1930, da Irving Penn nel ’47, da Brassai nel ’55 o da Cartier-Bresson nel ’67, ed eccolo, ancora, con André Breton alla Galleria Maeght nel ’61 e con Picasso nel ’69. Ecco ripubblicato un libro fondamentale sul grande artista

Un grande poeta legge un grande pittore. Nel 1964, a Parigi (Bibliothèque des arts), esce il Miró di Yves Bonnefoy, subito tradotto in italiano (Silvana editoriale). Mezzo secolo dopo, Abscondita ripubblica il saggio nella collana «Miniature», nell’ottima traduzione di Diana Grange Fiori, e con un’appendice iconografica di notevole interesse (pp. 104, € 13). Ecco Miró con la compagnia dei Balletti russi e Max Ernst alla stazione di Montecarlo nel ’32; ancora, visto da Man Ray nel 1930, da Irving Penn nel ’47, da Brassai nel ’55 o da Cartier-Bresson nel ’67, ed eccolo, ancora, con André Breton alla Galleria Maeght nel ’61 e con Picasso nel ’69.
Un libro fondamentale, questo di Bonnefoy; un viaggio introspettivo nella pittura e nelle sue contraddizioni («L’arte di Miró è bifronte»): lo scandaglio della tradizione, le intuizioni, il rapporto con la natura, la tristezza, la sensualità, gli incubi, l’attrazione della morte. Il poeta francese «rivive» e «interpreta» la storia «di uno spirito inquieto che lotta contro il turbamento che è in lui e che chiede all’arte di soccorrerlo». Insomma, l’arte diventa una sorta di catarsi. Miró è nato nel 1893. Bonnefoy parte dal 1915, da quello che egli considera il Miró «espressionista» sui generis : amante dei fauves e di Van Gogh («pittori del sole e della terra») e piuttosto lontano da Munch o da Beckman, cresciuti in una «società protestante». Così come, nel momento in cui affronta il cubismo, è a Picasso che guarda, a ciò che «esprime il dinamismo della natura e la geometria delle apparenze», anche se rifiuta una «cultura cittadina» perché la sente estranea. Ecco, Miró torna sempre alla natura, alla terra («Bisogna dipingere calcando la terra: la forza entra dai piedi»). Da qui, dubbi, incertezze che, naturalmente, creano tensioni, ma che alla fine, egli affronta e risolve «nell’atto stesso di dipingere». Come? Bonnefoy adopera due parole: coraggio e genio.

C’è di più. Miró si guarda continuamente intorno. Graffiti, arti primitive, forme irrazionali, apparenza delle cose. Europa, ma anche Africa e Oceania. E, d’un tratto, il dadaismo, capace di comunicargli un grande senso di libertà. Dipingere con i colori, ma anche con corde, foto, legnetti. «Miró era la grande libertà (…) In un certo senso, assolutamente perfetto – osservava Giacometti —. Era così profondamente pittore che gli bastava lasciar cadere tre macchie di colore sulla tela perché questa esistesse e costituisse un quadro». La natura si libera di ogni costrizione. Riappare il danzatore primitivo. E l’arte «s’imparenta» con la musica («La musica non è forse conseguenza della danza, proprio perché libera i ritmi del nostro corpo?» si chiede Bonnefoy). E musica e sogno non sono vicini di casa? Da qui fughe, evasioni, suggestioni che porteranno Miró alle Pitture selvagge, «ai miti della follia», ad un certo astrattismo.
Il saggio di Bonnefoy si ferma al 1964 (l’artista catalano muore nell’83), ma il mirómondo continua. Soave e drammatico, misterioso e dolcissimo, favolistico e rituale, Accompagnato da Mozart e Bach da una lato; Van Gogh e Cézanne, dall’altro. I suoi segni navigano, germinano, cantano con un ritmo frenetico, scanditi dal flusso della memoria dell’infanzia, ricca di pesci volanti, di matasse di lana colorata a mo’ di occhi di uccelli. Nel giardino incantato delle favole, l’illusionista Miró offre la Grande rappresentazione per adulti e ragazzi. Ma non ci si lasci incantare. L’indole del pittore è tragica, come ricorda Yves Bonnefoy. La vera strada gliel’avevano indicata i poeti della Parigi anni-Venti, una Parigi «dove si veniva per lottare, non per essere spettatori della lotta» e dove egli aveva cominciato, in un giardino incantato, la girandola delle invenzioni che lo avrebbero portato ad un ineffabile gioco senza fine.