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 2014  novembre 19 Mercoledì calendario

C’è qualcosa di sbagliato nel nostro calcio. Su 84 anni di titoli mondiali, l’Italia è stata per 24 campione del mondo, più altri 8 al secondo posto, 32 anni ai primi due posti, un’eternità. E da qualche anno, di colpo, più niente. Perché?

C’è qualcosa nella crisi del calcio italiano che non torna. Ci siamo abituati a dire che da noi giocano troppi stranieri, ed è vero, ma non può decidere questo da solo la nostra intera qualità. Siamo un Paese di 60 milioni di persone 3 delle quali giocano regolarmente a calcio. Qualunque sia il numero di stranieri è un’aggiunta, non costruisce il movimento. La Croazia che abbiamo incontrato domenica ha solo 5 milioni di abitanti. La Costa Rica non arriva a 3, l’Uruguay è sotto i 4. Eppure sono tre nazionali che in questo momento non valgono meno dell’Italia. C’è uno squilibrio troppo grande tra quello che dovremmo essere e quello che siamo, ed è uno squilibrio che accade per la prima volta. Su 84 anni di titoli mondiali, l’Italia è stata per 24 campione del mondo, più altri 8 al secondo posto, 32 anni ai primi due posti, un’eternità. Ha sempre avuto generazioni di fuoriclasse. Negli anni 30 quella di Meazza, Piola, Ferrari, Schiavio; negli anni 60-70 quella di Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Riva, Pulici, Boninsegna, Corso; negli anni 80-90 quella di Tardelli, Antognoni, Rossi, Vialli, Bettega, Altobelli, poi quella di Baggio, Mancini, Totti, Del Piero, Zola, Vieri, Inzaghi, Di Natale. Da qualche anno, di colpo, più niente. Perché? Gli stranieri chiudono i posti in serie A, ma dovremmo allora avere talenti in quantità in serie B e C, invece non esce niente. Così è troppo poco per essere vero. C’è qualcosa di sbagliato nel nostro calcio che sta bloccando la «produzione». Una modestia del genere l’abbiamo avuta solo negli anni 50 dopo la tragedia del grande Torino, ma lì erano morti i migliori giocatori del paese, cancellata una nazionale intera. E c’era un Paese da ricostruire, generazioni di ragazzi morti al fronte. Non si poteva chiedere niente. Oggi non c’è ragione, solo qualcosa di grande che non vediamo e ci sfugge. Forse è cambiato il nostro modo di interpretare il calcio. Forse lo stesso calcio all’italiana oggi è uno sforzo atletico di squadra, non di un singolo reparto lanciato in contropiede. E allora avrebbe ragione Conte a denunciare la nostra pigrizia. Ma sta facendosi strada qualcosa di diverso. Non è una crisi tecnica, è qualcosa che viene da più lontano. La crisi tecnica oggi è una conseguenza, la causa è quasi fuori dal calcio. Per la prima volta il calcio ha perso importanza nelle nostre abitudini. È come se davvero altri modi di passare il tempo tenessero occupati i ragazzi e la generazione elettronica preferisse un agonismo virtuale. E quando alla fine si gioca a calcio, si fa trattandolo male, a imitazione dei grandi, spinti dai genitori nelle scuole calcio, giocando a essere giocatori veri ma inversi, nel senso che paghiamo noi per correre, per il diritto a giocare. Mi sembra in sostanza la prima crisi sociale del calcio dalla sua nascita, il primo stop umano e industriale, ed è una crisi che abbiamo sentito per primi, forse perché al calcio abbiamo dato molto più di altri. Non so se sia un bene o un male. Sento però che sta accadendo.