19 novembre 2014
Strage nella sinagoga a Gerusalemme. Quattro rabbini uccisi con accetta e pistola. Hamas fa festa, Abu Mazen condanna l’attentato, Netanyahu promette una risposta durissima: armi ai civili e ceck point nei quartieri arabi
Corriere della Sera
Parla alla nazione come quest’estate durante i cinquanta giorni di guerra con Hamas e in guerra il premier israeliano si considera. «Gerusalemme è sotto attacco, dobbiamo restare uniti» proclama in televisione. Prima di annunciare le contromisure che dovrebbero riportare la calma nella città dopo sei attentati in meno di un mese: posti di blocco e controlli all’ingresso dei quartieri arabi, la demolizione delle case dei palestinesi coinvolti negli assalti, operazioni militari per fermare le violenze. Yitzhak Aaronovitch, il ministro per la Sicurezza interna, promuove la proposta più radicale: ammorbidire le regole per il porto d’armi, un’invocazione ai civili perché si difendano da soli.
Senza protezione erano gli ultraortodossi arrivati all’alba di ieri mattina nella sinagoga Kehilat Bnei Torah, nella zona di Har Nof, a pochi chilometri da Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto. I cadaveri sul pavimento portano ancora i simboli della preghiera, i tefillin di cuoio nero avvolti sul braccio, gli scialli bianchi inzuppati di sangue. I due palestinesi li hanno ammazzati a colpi di mannaia, accetta, pistola, li hanno inseguiti mentre fuggivano: sono stati bloccati da due poliziotti della stradale, i primi a intervenire, a fermare la carneficina.
«Hanno lasciato quattro vedove e ventiquattro orfani» dice il rabbino Yizthak Rubin. Vivevano tutti sulla stessa via, in questa zona abitata in maggioranza da famiglie religiose, i palazzoni bianchi terrazzati che guardano verso la foresta attorno alla parte occidentale di Gerusalemme. Quartiere di immigrati come quattro delle vittime: tre sono americani (e l’Fbi partecipa alle indagini), uno britannico. In serata è morto anche un poliziotto colpito nella sparatoria. Sei i feriti. L’italiano-israeliano Nissim Sermoneta si è salvato per aver tirato una sedia contro gli attentatori: «Veniva verso di me con una pistola – racconta all’agenzia Ansa – ho anche sollevato un tavolo e l’ho usato come scudo». I due terroristi sono stati uccisi dalla polizia. Rassan e Uday Jamal erano cugini, abitavano a Jabal Mukaber dall’altra parte di Gerusalemme. L’area è stata circondata, le loro case perquisite, alla moglie di uno di loro è stato revocato il permesso di residenza, deve tornare nel villaggio della Cisgiordania da cui proviene. I parenti dicono che i due erano infuriati per la morte dell’autista arabo di autobus trovato impiccato lunedì.
La polizia dice che si tratta di suicidio, i palestinesi sono invece convinti che l’uomo sia stato ucciso da estremisti ebrei e gli agenti abbiano coperto l’omicidio. Netanyahu ha sfruttato l’appello all’unità del Paese anche per ammonire i suoi ministri.
Prima dell’attacco la crisi di governo sembrava possibile e vicina, adesso la coalizione si rinsalda come sempre durante i conflitti. Il premier deve cercare di controllare i ministri più oltranzisti, come Naftali Bennett che definisce il presidente palestinese Abu Mazen «un terrorista in completo e cravatta» e chiede che gli ebrei possano pregare sul Monte del Tempio-Spianata delle moschee, un cambio delle regole considerato oltraggioso dai musulmani. Allo stesso tempo sa di dover parlare agli elettori di destra, quelli che lo hanno votato perché in lui vedevano Mr Sicurezza.
Parla alla nazione come quest’estate durante i cinquanta giorni di guerra con Hamas e in guerra il premier israeliano si considera. «Gerusalemme è sotto attacco, dobbiamo restare uniti» proclama in televisione. Prima di annunciare le contromisure che dovrebbero riportare la calma nella città dopo sei attentati in meno di un mese: posti di blocco e controlli all’ingresso dei quartieri arabi, la demolizione delle case dei palestinesi coinvolti negli assalti, operazioni militari per fermare le violenze. Yitzhak Aaronovitch, il ministro per la Sicurezza interna, promuove la proposta più radicale: ammorbidire le regole per il porto d’armi, un’invocazione ai civili perché si difendano da soli.
Senza protezione erano gli ultraortodossi arrivati all’alba di ieri mattina nella sinagoga Kehilat Bnei Torah, nella zona di Har Nof, a pochi chilometri da Yad Vashem, il memoriale dell’Olocausto. I cadaveri sul pavimento portano ancora i simboli della preghiera, i tefillin di cuoio nero avvolti sul braccio, gli scialli bianchi inzuppati di sangue. I due palestinesi li hanno ammazzati a colpi di mannaia, accetta, pistola, li hanno inseguiti mentre fuggivano: sono stati bloccati da due poliziotti della stradale, i primi a intervenire, a fermare la carneficina.
«Hanno lasciato quattro vedove e ventiquattro orfani» dice il rabbino Yizthak Rubin. Vivevano tutti sulla stessa via, in questa zona abitata in maggioranza da famiglie religiose, i palazzoni bianchi terrazzati che guardano verso la foresta attorno alla parte occidentale di Gerusalemme. Quartiere di immigrati come quattro delle vittime: tre sono americani (e l’Fbi partecipa alle indagini), uno britannico. In serata è morto anche un poliziotto colpito nella sparatoria. Sei i feriti. L’italiano-israeliano Nissim Sermoneta si è salvato per aver tirato una sedia contro gli attentatori: «Veniva verso di me con una pistola – racconta all’agenzia Ansa – ho anche sollevato un tavolo e l’ho usato come scudo». I due terroristi sono stati uccisi dalla polizia. Rassan e Uday Jamal erano cugini, abitavano a Jabal Mukaber dall’altra parte di Gerusalemme. L’area è stata circondata, le loro case perquisite, alla moglie di uno di loro è stato revocato il permesso di residenza, deve tornare nel villaggio della Cisgiordania da cui proviene. I parenti dicono che i due erano infuriati per la morte dell’autista arabo di autobus trovato impiccato lunedì.
La polizia dice che si tratta di suicidio, i palestinesi sono invece convinti che l’uomo sia stato ucciso da estremisti ebrei e gli agenti abbiano coperto l’omicidio. Netanyahu ha sfruttato l’appello all’unità del Paese anche per ammonire i suoi ministri.
Prima dell’attacco la crisi di governo sembrava possibile e vicina, adesso la coalizione si rinsalda come sempre durante i conflitti. Il premier deve cercare di controllare i ministri più oltranzisti, come Naftali Bennett che definisce il presidente palestinese Abu Mazen «un terrorista in completo e cravatta» e chiede che gli ebrei possano pregare sul Monte del Tempio-Spianata delle moschee, un cambio delle regole considerato oltraggioso dai musulmani. Allo stesso tempo sa di dover parlare agli elettori di destra, quelli che lo hanno votato perché in lui vedevano Mr Sicurezza.
Davide Frattini
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Corriere della Sera
La carta d’identità blu permette ai palestinesi di muoversi senza controlli dalle zone arabe della città. Come i due attentatori, cugini e vicini di casa nel quartiere di Jabal Mukaber. Uno di loro lavorava in un negozietto vicino alla sinagoga colpita(nella foto), conosceva l’area di Har Nof, abitata in maggioranza da ultraortodossi.
Forse sapeva – lo rivela il sito israeliano Nrg – che in quel tempio andava a pregare il padre di uno degli estremisti accusati per l’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino palestinese rapito e bruciato vivo all’inizio di luglio.
Sotto il telone verde di plastica, la tenda allestita dalla famiglia per ricevere le condoglianze, i parenti esaltano Uday e Rassan come «martiri», eppure sostengono che non fossero coinvolti nella politica, non facessero parte di fazioni. Il Fronte popolare di liberazione della Palestina li proclama suoi militanti, non rivendica l’operazione. Come gli ultimi attacchi (sei in meno di un mese, 11 israeliani uccisi) anche quello di ieri all’alba sembra organizzato in casa da due «lupi solitari» così li chiamano gli investigatori dello Shin Bet, il servizio segreto interno, il cui capo Yoram Cohen contraddice il premier Benjamin Netanyahu e i suoi ministri: ai deputati della commissione Affari e Difesa spiega che il presidente palestinese non starebbe incitando e promuovendo gli atti terroristici. A differenza – fanno notare gli analisti – di Yasser Arafat durante la seconda Intifada.
Nessuno ancora vuole ribattezzare questa ondata di violenza con la parola araba (adottata anche dall’esercito israeliano), tutti cercano di intravvederne i segnali.
«Il mito di un terzo “scossone” dopo quelli alla fine degli anni Ottanta e nel Duemila circola soprattutto su Facebook – scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz – e raccoglie “Mi piace” da chi non vive da queste parti. Per ora non si è concretizzato perché non sembra esserci la motivazione per una rivolta che cambi in modo profondo la situazione. I monopoli che dominano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza (Israele, l’Autorità palestinese, l’Egitto e anche Hamas) preferiscono mantenere l’attuale distribuzione del potere».
L’intelligence israeliana ammette di non avere soluzioni pronte per fermare gli assalitori prima di questi raid. Che spesso vengono decisi in poche ore, nel chiuso di una stanza, senza telefonate, senza cellulari da poter intercettare, senza tracce da seguire all’indietro dopo l’attacco per risalire a una cellula o a un’organizzazione.
Il palestinese che ha ucciso un soldato vicino alla stazione di Tel Aviv otto giorni fa aveva lasciato Nablus in Cisgiordania per cercare un lavoro e ha usato un coltello da cucina, comprabile ovunque.
L’esperto militare Amos Harel è preoccupato da quelle che considera le avvisaglie di una guerra religiosa: «Come modello da emulare trovano i maniaci assassini dello Stato islamico e come scusa un crescente coinvolgimento israeliano (vero o falso che sia) sul Monte del Tempio, la Spianata delle moschee per i musulmani.
La sinagoga non è stata scelta per caso, l’obiettivo indica volutamente un conflitto tra le fedi».
La carta d’identità blu permette ai palestinesi di muoversi senza controlli dalle zone arabe della città. Come i due attentatori, cugini e vicini di casa nel quartiere di Jabal Mukaber. Uno di loro lavorava in un negozietto vicino alla sinagoga colpita(nella foto), conosceva l’area di Har Nof, abitata in maggioranza da ultraortodossi.
Forse sapeva – lo rivela il sito israeliano Nrg – che in quel tempio andava a pregare il padre di uno degli estremisti accusati per l’omicidio di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino palestinese rapito e bruciato vivo all’inizio di luglio.
Sotto il telone verde di plastica, la tenda allestita dalla famiglia per ricevere le condoglianze, i parenti esaltano Uday e Rassan come «martiri», eppure sostengono che non fossero coinvolti nella politica, non facessero parte di fazioni. Il Fronte popolare di liberazione della Palestina li proclama suoi militanti, non rivendica l’operazione. Come gli ultimi attacchi (sei in meno di un mese, 11 israeliani uccisi) anche quello di ieri all’alba sembra organizzato in casa da due «lupi solitari» così li chiamano gli investigatori dello Shin Bet, il servizio segreto interno, il cui capo Yoram Cohen contraddice il premier Benjamin Netanyahu e i suoi ministri: ai deputati della commissione Affari e Difesa spiega che il presidente palestinese non starebbe incitando e promuovendo gli atti terroristici. A differenza – fanno notare gli analisti – di Yasser Arafat durante la seconda Intifada.
Nessuno ancora vuole ribattezzare questa ondata di violenza con la parola araba (adottata anche dall’esercito israeliano), tutti cercano di intravvederne i segnali.
«Il mito di un terzo “scossone” dopo quelli alla fine degli anni Ottanta e nel Duemila circola soprattutto su Facebook – scrive Anshel Pfeffer sul quotidiano Haaretz – e raccoglie “Mi piace” da chi non vive da queste parti. Per ora non si è concretizzato perché non sembra esserci la motivazione per una rivolta che cambi in modo profondo la situazione. I monopoli che dominano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza (Israele, l’Autorità palestinese, l’Egitto e anche Hamas) preferiscono mantenere l’attuale distribuzione del potere».
L’intelligence israeliana ammette di non avere soluzioni pronte per fermare gli assalitori prima di questi raid. Che spesso vengono decisi in poche ore, nel chiuso di una stanza, senza telefonate, senza cellulari da poter intercettare, senza tracce da seguire all’indietro dopo l’attacco per risalire a una cellula o a un’organizzazione.
Il palestinese che ha ucciso un soldato vicino alla stazione di Tel Aviv otto giorni fa aveva lasciato Nablus in Cisgiordania per cercare un lavoro e ha usato un coltello da cucina, comprabile ovunque.
L’esperto militare Amos Harel è preoccupato da quelle che considera le avvisaglie di una guerra religiosa: «Come modello da emulare trovano i maniaci assassini dello Stato islamico e come scusa un crescente coinvolgimento israeliano (vero o falso che sia) sul Monte del Tempio, la Spianata delle moschee per i musulmani.
La sinagoga non è stata scelta per caso, l’obiettivo indica volutamente un conflitto tra le fedi».
Davide Frattini
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la Repubblica
Sette minuti di terrore nella Città Santa hanno insanguinato di nuovo le strade e gettato nel panico la gente di Gerusalemme, in un conflitto che si sta rapidamente trasfigurando in una guerra di religione con la “complicità” dei leader politici. Ebrei e palestinesi sanno bene come premere l’un l’altro i tasti più sensibili per suscitare una reazione popolare, il dramma di questa terra è “tecnicamente” pronto per una nuova tappa verso l’abisso. Bruciano i quartieri arabi della città avvolti dai fumi della guerriglia urbana, insorgono quelli ebraici dove è scattata la “caccia all’arabo” mentre i canti di morte accompagnano le spoglie di quattro rabbini trucidati in una sinagoga al grande cimitero.
Gerusalemme è una città di santità e di oscena violenza nella quale gli assassini che invocano il nome di Dio seminano la morte fra la gente comune. Come i due “lupi solitari” palestinesi che ieri, armati di pistola, accette e coltelli hanno deciso di andare nel cuore di Har Hof, uno dei quartieri della città abitati quasi esclusivamente da ortodossi, nella sinagoga Kehilat Bnei Torah dove a quell’ora un gruppo di religiosi era intento alle preghiere del mattino. Un massacro. Quattro rabbini uccisi, altri sei fedeli feriti gravemente. Uno degli agenti della prima pattuglia di polizia arrivata sul posto dopo la telefonata di allarme, mentre tra le mura del primo piano si consumava la mattanza, è morto in tarda serata per le ferite riportate. Morti anche i due attentatori.
Dalle 07.01 alle 07.08 i due cugini Uday e Ghassan Abu Jamal, – due ventenni di Gerusalemme Est – hanno dato la caccia dentro il grande palazzo che ospita la sinagoga e anche la yeshiva (la scuola talmudica) urlando “Allah Akbar”. Di quei minuti di terrore restano le porte di vetro della sinagoga sforacchiate dai proiettili della polizia, una lunga scia di sangue nell’androne sul pavimento di marmo lucido, i libri che le vittime avevano in mano squadernati in terra maculati di rosso, come i tallit (gli scialli da preghiera) abbandonati sui banchi, occhiali spezzati in terra. In biblioteca, l’ultimo rifugio nella fuga delle vittime, sui testi sacri e sulle pareti bianche c’è il sangue.
L’arrivo tempestivo della polizia e dei reparti speciali ha impedito che gli altri venticinque fedeli presenti nella sinagoga cadessero sotto i colpi dei due killer. «Durante le preghiere ho sentito gli spari», racconta Amos, «e ho visto uno dei rabbini a terra avvolto nel tallit e uno di questi bastardi che correva e gridava “Allah Akbar” e sparava scegliendo le persone più vicine». Una delle quattro vittime, il rabbino Moshe Twersky, doppia cittadinanza americana e israeliana come altri due, discendeva da uno dei più antichi lignaggi hassidici d’Europa. La notizia della strage alla sinagoga si è diffusa in un attimo in una città che sente di essere tornata nell’occhio del ciclone, con la paura di una nuova Intifada e l’incubo del ritorno al terrorismo. Mentre il premier Netanyahu riuniva il gabinetto d’emergenza e Hamas si felicitava con i killer, le strade si sono svuotate di colpo, bus e tram deserti, gli elicotteri in volo a bassa quota, gli aerostati con le telecamere per i quartieri arabi, le sirene, le colonne di mezzi militari che corrono ai quattro angoli della città. Gerusalemme somiglia sempre più a una città sul fronte di una guerra, con sei attentati e 12 morti in meno di quattro settimane. Il premier Netanyahu ha promesso misure draconiane. I civili – ex poliziotti, ex militari e coloni – saranno autorizzati a portare armi per difesa personale e saranno istituiti check-point all’ingresso e all’uscita dei quartieri arabi. Ma non è aumentando il numero delle pistole che cresce la sicurezza. Il premier ha anche ordinato la demolizione delle case di famiglia dei due giovani killer nel quartiere arabo di Jabal Mukaber. Una misura ripresa dal governo dopo dieci anni di sospensione e che suscita molti dubbi anche in Israele sull’effettiva legalità.
Netanyahu punta il dito contro Abu Mazen, che ha subito condannato la strage, accusando il presidente palestinese di essere il “regista” di questa escalation per aver chiamato gli arabi alla difesa della Spianata delle Moschee minacciata dall’estensione della sovranità israeliana sul terzo luogo santo dell’Islam. Nel pomeriggio gli scontri fra polizia e giovani palestinesi sono dilagati a macchia d’olio in tutti i quartieri arabi e anche nei pressi di Kalandia, il check-point verso i Territori più vicino alla Città Santa. La protesta contro l’occupazione dei Territori sta trasformandosi nella battaglia per la difesa di Al Aqsa. È la sindrome di Gerusalemme. Da un lato gli estremisti palestinesi che hanno diffuso la menzogna che Israele intende ricostruire il Terzo Tempio sulla Spianata soppiantando il culto islamico, dall’altra gli ultrà ebrei, le cui azioni e le parole messianiche, apocalittiche e potenzialmente catastrofiche gettano benzina sul fuoco.
Nei corridoi del potere israeliano, sulla collina dove sorge la Knesset, l’ufficio del premier e il ministero degli Esteri, la parola negoziato è scomparsa dal lessico politico. Si fa strada un altro termine abbondantemente abusato: «Contenimento». In altre parole il mondo politico israeliano sostiene che è possibile vivere in questa realtà. Il portavoce più chiaro di questa linea è il ministro della Difesa Moshe Yaalon quando dice: «Il conflitto con i palestinesi non è risolvibile, dobbiamo solo gestirlo meglio». Non c’è nessun Yitzhak Rabin all’orizzonte e nessun Mandela palestinese, certamente non Marwan Barghouti che chiede il ritorno dell’Intifada da una cella d’isolamento in una prigione israeliana.
Sette minuti di terrore nella Città Santa hanno insanguinato di nuovo le strade e gettato nel panico la gente di Gerusalemme, in un conflitto che si sta rapidamente trasfigurando in una guerra di religione con la “complicità” dei leader politici. Ebrei e palestinesi sanno bene come premere l’un l’altro i tasti più sensibili per suscitare una reazione popolare, il dramma di questa terra è “tecnicamente” pronto per una nuova tappa verso l’abisso. Bruciano i quartieri arabi della città avvolti dai fumi della guerriglia urbana, insorgono quelli ebraici dove è scattata la “caccia all’arabo” mentre i canti di morte accompagnano le spoglie di quattro rabbini trucidati in una sinagoga al grande cimitero.
Gerusalemme è una città di santità e di oscena violenza nella quale gli assassini che invocano il nome di Dio seminano la morte fra la gente comune. Come i due “lupi solitari” palestinesi che ieri, armati di pistola, accette e coltelli hanno deciso di andare nel cuore di Har Hof, uno dei quartieri della città abitati quasi esclusivamente da ortodossi, nella sinagoga Kehilat Bnei Torah dove a quell’ora un gruppo di religiosi era intento alle preghiere del mattino. Un massacro. Quattro rabbini uccisi, altri sei fedeli feriti gravemente. Uno degli agenti della prima pattuglia di polizia arrivata sul posto dopo la telefonata di allarme, mentre tra le mura del primo piano si consumava la mattanza, è morto in tarda serata per le ferite riportate. Morti anche i due attentatori.
Dalle 07.01 alle 07.08 i due cugini Uday e Ghassan Abu Jamal, – due ventenni di Gerusalemme Est – hanno dato la caccia dentro il grande palazzo che ospita la sinagoga e anche la yeshiva (la scuola talmudica) urlando “Allah Akbar”. Di quei minuti di terrore restano le porte di vetro della sinagoga sforacchiate dai proiettili della polizia, una lunga scia di sangue nell’androne sul pavimento di marmo lucido, i libri che le vittime avevano in mano squadernati in terra maculati di rosso, come i tallit (gli scialli da preghiera) abbandonati sui banchi, occhiali spezzati in terra. In biblioteca, l’ultimo rifugio nella fuga delle vittime, sui testi sacri e sulle pareti bianche c’è il sangue.
L’arrivo tempestivo della polizia e dei reparti speciali ha impedito che gli altri venticinque fedeli presenti nella sinagoga cadessero sotto i colpi dei due killer. «Durante le preghiere ho sentito gli spari», racconta Amos, «e ho visto uno dei rabbini a terra avvolto nel tallit e uno di questi bastardi che correva e gridava “Allah Akbar” e sparava scegliendo le persone più vicine». Una delle quattro vittime, il rabbino Moshe Twersky, doppia cittadinanza americana e israeliana come altri due, discendeva da uno dei più antichi lignaggi hassidici d’Europa. La notizia della strage alla sinagoga si è diffusa in un attimo in una città che sente di essere tornata nell’occhio del ciclone, con la paura di una nuova Intifada e l’incubo del ritorno al terrorismo. Mentre il premier Netanyahu riuniva il gabinetto d’emergenza e Hamas si felicitava con i killer, le strade si sono svuotate di colpo, bus e tram deserti, gli elicotteri in volo a bassa quota, gli aerostati con le telecamere per i quartieri arabi, le sirene, le colonne di mezzi militari che corrono ai quattro angoli della città. Gerusalemme somiglia sempre più a una città sul fronte di una guerra, con sei attentati e 12 morti in meno di quattro settimane. Il premier Netanyahu ha promesso misure draconiane. I civili – ex poliziotti, ex militari e coloni – saranno autorizzati a portare armi per difesa personale e saranno istituiti check-point all’ingresso e all’uscita dei quartieri arabi. Ma non è aumentando il numero delle pistole che cresce la sicurezza. Il premier ha anche ordinato la demolizione delle case di famiglia dei due giovani killer nel quartiere arabo di Jabal Mukaber. Una misura ripresa dal governo dopo dieci anni di sospensione e che suscita molti dubbi anche in Israele sull’effettiva legalità.
Netanyahu punta il dito contro Abu Mazen, che ha subito condannato la strage, accusando il presidente palestinese di essere il “regista” di questa escalation per aver chiamato gli arabi alla difesa della Spianata delle Moschee minacciata dall’estensione della sovranità israeliana sul terzo luogo santo dell’Islam. Nel pomeriggio gli scontri fra polizia e giovani palestinesi sono dilagati a macchia d’olio in tutti i quartieri arabi e anche nei pressi di Kalandia, il check-point verso i Territori più vicino alla Città Santa. La protesta contro l’occupazione dei Territori sta trasformandosi nella battaglia per la difesa di Al Aqsa. È la sindrome di Gerusalemme. Da un lato gli estremisti palestinesi che hanno diffuso la menzogna che Israele intende ricostruire il Terzo Tempio sulla Spianata soppiantando il culto islamico, dall’altra gli ultrà ebrei, le cui azioni e le parole messianiche, apocalittiche e potenzialmente catastrofiche gettano benzina sul fuoco.
Nei corridoi del potere israeliano, sulla collina dove sorge la Knesset, l’ufficio del premier e il ministero degli Esteri, la parola negoziato è scomparsa dal lessico politico. Si fa strada un altro termine abbondantemente abusato: «Contenimento». In altre parole il mondo politico israeliano sostiene che è possibile vivere in questa realtà. Il portavoce più chiaro di questa linea è il ministro della Difesa Moshe Yaalon quando dice: «Il conflitto con i palestinesi non è risolvibile, dobbiamo solo gestirlo meglio». Non c’è nessun Yitzhak Rabin all’orizzonte e nessun Mandela palestinese, certamente non Marwan Barghouti che chiede il ritorno dell’Intifada da una cella d’isolamento in una prigione israeliana.
Fabio Scuto
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Il Sole 24 Ore
Già il Codice di Hammurabi del secondo millennio avanti Cristo aveva dato un nome a quello che sta accadendo oggi a Gerusalemme: legge del taglione. Cioè occhio per occhio. La strage nella sinagoga della parte occidentale, ebraica, della città è solo l’ultimo episodio e il più sanguinoso in ordine di tempo, di uno scontro che gli esperti sono incerti se chiamare o no terza Intifada.
Comunque la si definisca, è un’escalation estremamente pericolosa di violenza nazionalistica fra israeliani e palestinesi, etnica fra ebrei israeliani e arabi palestinesi, religiosa fra ebrei e musulmani: nella sua potenzialità distruttiva e per le conseguenze possibili, perfino peggiore della lunga guerra estiva nella striscia di Gaza. Soprattutto perché il campo di battaglia è Gerusalemme, considerata capitale e città santa per troppi popoli e troppe fedi.
E ancor più perché, prima di essere uno scontro fra Stato d’Israele e Autorità Palestinese o fra Israele e Hamas, è un conflitto combattuto dalla gente. Prima del soldato e del miliziano, soggetti tradizionali dei conflitti, il nemico è il passante, l’automobilista, la gente del quartiere accanto, gli studenti che escono dalle scuole nelle quali si demonizza la Storia dell’altro.
I prodromi dell’aggressione terroristica di ieri alla sinagoga si perdono nella memoria della breve cronaca dell’ultimo mese: il rabbino che senza consultarsi con le autorità era provocatoriamente andato fra le moschee della spianata, nella città vecchia; il palestinese salito sulla sua auto che ha investito cittadini israeliani a una fermata del tram; il poliziotto israeliano che col fucile di precisione spara senza motivo in testa al ragazzino palestinese; il padre di famiglia palestinese che accoltella una ragazza israeliana.
Lunedì, il giorno prima del massacro alla sinagoga, nell’autorimessa dei mezzi pubblici di Gerusalemme Ovest, ebraica, un autista palestinese è stato trovato impiccato sul suo autobus. Gli israeliani dicono suicidio, gli arabi dicono linciaggio. Non è un tentativo di giustificare l’aggressione di ieri. È solo un’aggiunta alla cronologia che sta portando Gerusalemme alla catastrofe. Il giorno prima Hamas invita gli arabi di Gerusalemme a vendicarsi, e il giorno dopo la ritorsione accade. Forse dietro gli attentati esistono una direzione occulta e una logistica. Ma non sono più così necessarie per accendere questi robot del terrorismo fai da te, o terrorismo della porta accanto: le definizioni giornalisticamente "sexy" non mancano.
Non c’è nulla che li possa fermare a meno che non si presìdi ogni angolo di Gerusalemme; e lo Shin Bet, i servizi segreti interni, non mettano un agente in ogni casa palestinese e in ogni colonia ebraica. Per quanto si odino e vivano divisi, in un territorio così piccolo israeliani e palestinesi comunque condividono una buona parte della loro quotidianità. Per quanti muri si elevino e leggi sullo "Stato-Nazione degli Ebrei" si vogliano fare per snaturare l’essenza democratica del Paese, il 20% della popolazione d’Israele è composto da arabi: arabi, cioè palestinesi d’Israele, in aggiunta ai palestinesi dei Territori occupati.
Il governo israeliano che annuncia nuove colonie nella parte araba della città e Hamas che esorta gli arabi di Gerusalemme alla vendetta permanente, sono solo i facili istigatori della vicenda. È penoso leggere i commenti dei leader politici israeliani e palestinesi, di destra e di sinistra, laici e religiosi: nessuno che tenti di ergersi al di sopra della mischia, preoccupato di compiacere le viscere dei loro elettori.
Pensate al comportamento di Hamas che continua a buttare vite palestinesi nel calderone della sua guerra senza possibilità di vittoria; o a quello di Israele che ogni volta rade al suolo le case delle famiglie dei terroristi: sa che non serve a nulla, che rende solo l’odio più forte, ma continua a farlo ugualmente, per spirito di faida e povertà di idee più originali del consueto uso della forza.
Come ha detto una volta a questo giornale il filosofo israeliano Avishai Margalit, che qualche anno fa è andato a insegnare a Princeton e da lì non è più tornato a Gerusalemme, in questa storia la politica è scomparsa da tempo. C’è solo lo scontro etnico e religioso, la lotta fra due tribù nazionali che a oltre cento anni dal loro manifestarsi non hanno ancora trovato la soluzione per una modica convivenza.
Già il Codice di Hammurabi del secondo millennio avanti Cristo aveva dato un nome a quello che sta accadendo oggi a Gerusalemme: legge del taglione. Cioè occhio per occhio. La strage nella sinagoga della parte occidentale, ebraica, della città è solo l’ultimo episodio e il più sanguinoso in ordine di tempo, di uno scontro che gli esperti sono incerti se chiamare o no terza Intifada.
Comunque la si definisca, è un’escalation estremamente pericolosa di violenza nazionalistica fra israeliani e palestinesi, etnica fra ebrei israeliani e arabi palestinesi, religiosa fra ebrei e musulmani: nella sua potenzialità distruttiva e per le conseguenze possibili, perfino peggiore della lunga guerra estiva nella striscia di Gaza. Soprattutto perché il campo di battaglia è Gerusalemme, considerata capitale e città santa per troppi popoli e troppe fedi.
E ancor più perché, prima di essere uno scontro fra Stato d’Israele e Autorità Palestinese o fra Israele e Hamas, è un conflitto combattuto dalla gente. Prima del soldato e del miliziano, soggetti tradizionali dei conflitti, il nemico è il passante, l’automobilista, la gente del quartiere accanto, gli studenti che escono dalle scuole nelle quali si demonizza la Storia dell’altro.
I prodromi dell’aggressione terroristica di ieri alla sinagoga si perdono nella memoria della breve cronaca dell’ultimo mese: il rabbino che senza consultarsi con le autorità era provocatoriamente andato fra le moschee della spianata, nella città vecchia; il palestinese salito sulla sua auto che ha investito cittadini israeliani a una fermata del tram; il poliziotto israeliano che col fucile di precisione spara senza motivo in testa al ragazzino palestinese; il padre di famiglia palestinese che accoltella una ragazza israeliana.
Lunedì, il giorno prima del massacro alla sinagoga, nell’autorimessa dei mezzi pubblici di Gerusalemme Ovest, ebraica, un autista palestinese è stato trovato impiccato sul suo autobus. Gli israeliani dicono suicidio, gli arabi dicono linciaggio. Non è un tentativo di giustificare l’aggressione di ieri. È solo un’aggiunta alla cronologia che sta portando Gerusalemme alla catastrofe. Il giorno prima Hamas invita gli arabi di Gerusalemme a vendicarsi, e il giorno dopo la ritorsione accade. Forse dietro gli attentati esistono una direzione occulta e una logistica. Ma non sono più così necessarie per accendere questi robot del terrorismo fai da te, o terrorismo della porta accanto: le definizioni giornalisticamente "sexy" non mancano.
Non c’è nulla che li possa fermare a meno che non si presìdi ogni angolo di Gerusalemme; e lo Shin Bet, i servizi segreti interni, non mettano un agente in ogni casa palestinese e in ogni colonia ebraica. Per quanto si odino e vivano divisi, in un territorio così piccolo israeliani e palestinesi comunque condividono una buona parte della loro quotidianità. Per quanti muri si elevino e leggi sullo "Stato-Nazione degli Ebrei" si vogliano fare per snaturare l’essenza democratica del Paese, il 20% della popolazione d’Israele è composto da arabi: arabi, cioè palestinesi d’Israele, in aggiunta ai palestinesi dei Territori occupati.
Il governo israeliano che annuncia nuove colonie nella parte araba della città e Hamas che esorta gli arabi di Gerusalemme alla vendetta permanente, sono solo i facili istigatori della vicenda. È penoso leggere i commenti dei leader politici israeliani e palestinesi, di destra e di sinistra, laici e religiosi: nessuno che tenti di ergersi al di sopra della mischia, preoccupato di compiacere le viscere dei loro elettori.
Pensate al comportamento di Hamas che continua a buttare vite palestinesi nel calderone della sua guerra senza possibilità di vittoria; o a quello di Israele che ogni volta rade al suolo le case delle famiglie dei terroristi: sa che non serve a nulla, che rende solo l’odio più forte, ma continua a farlo ugualmente, per spirito di faida e povertà di idee più originali del consueto uso della forza.
Come ha detto una volta a questo giornale il filosofo israeliano Avishai Margalit, che qualche anno fa è andato a insegnare a Princeton e da lì non è più tornato a Gerusalemme, in questa storia la politica è scomparsa da tempo. C’è solo lo scontro etnico e religioso, la lotta fra due tribù nazionali che a oltre cento anni dal loro manifestarsi non hanno ancora trovato la soluzione per una modica convivenza.
Ugo Tramballi