Libero, 18 novembre 2014
Capote visto con altri occhi. La controbiografia di un grande scrittore votato all’autodistruzione
La vita vissuta come un interminabile cocktail party dell’Upper East Side newyorchese. Così si potrebbe definire la parabola esistenziale di Truman Capote, tra i più celebri e discussi scrittori americani del secolo scorso, il talento purissimo dell’autore di Colazione da Tiffany. Dopo la magistrale biografia del 1988 di Gerald Clarke, l’unico modo per scandagliare un’esistenza passata sotto la luce calda e perversa dei riflettori è quello escogitato dallo scrittore George Plimpton in Truman Capote – Un libro in cui vari amici, nemici, conoscenti e detrattori rievocano la sua turbolenta carriera (Garzanti, pp. 468, euro 29): un racconto corale e dettagliato che non lesina cattiverie, contraddizioni ed emozioni per quanto sfocate dal tempo. Questa tecnica – usata in modo esemplare anche da Gillian McCain e Legs McNeil per raccontare la storia della controcultura punk in Please Kill Me – ha permesso d’osservare la vita di Capote da angolazioni diverse, accostando le voci di anonimi vicini della casa della sua infanzia nella sperduta Monroeville, Alabama, a quelle di Marella Agnelli, Norman Mailer e Gore Vidal. «Una volta andammo ai bagni Everard», ricorda Vidal, «Molto sudici. Estremamente sudici. Era un edificio dell’Ottocento, che in seguito è stato distrutto da un incendio. Cubicoli, angoli. Un gran viavai. La gente indossava accappatoi bianchi…come nel film di Fellini 8 ½. Camminavamo lungo un corridoio…era il momento dei voyeur.Le luci erano fioche. Ma eravamo tutti abbastanza noti, e non avevamo molta voglia di essere riconosciuti». In realtà la turbolenta vita di Capote è sempre stata (volutamente) data in pasto ai pettegoli e alla stampa: la sua omosessualità sbandierata (in tanti ricordano la vocina sottile, i modi effemminati e i completi di gabardine freschi di boutique) e i tanti eccessi che da un certo punto in poi hanno preso il sopravvento sulla creatività. Dall’imponente opera di Plimpton emerge il ritratto di un uomo dall’infanzia infelice che cerca riscatto nel bel mondo e che, una volta conquistato il trono del regno della cosiddetta café society, disintegra se stesso e quel mondo patinato sotto i colpi implacabili della scrittura. È Preghiere esaudite, infatti, ultimo lavoro incompiuto di Capote, ad evocare la fine dei suoi giorni in società e il suo lento ed inesorabile declino: esporre alla berlina i vizi e le debolezze dei suoi amici altolocati ha causato la messa al bando dello scrittore dai giri che contano. Dopo essere sfuggito alla banalità violenta della provincia del sud e al trauma dall’abbandono della madre, l’assenza del padre e una sensibilità bruciante, estranea alle consuetudini di vita dei cittadini di Monroeville (fatta eccezione per l’amica del cuore Harper Lee, a sua volta scrittrice di successo con Il buio oltre la siepe), catapultano Truman alla conquista di New York, suggellata con un evento passato alla storia del costume mondano: il party in bianco e nero al Plaza. Ma in seguito la vacuità di quel mondo che ha contribuito ad alimentare – descritto con acutezza dal collega Tom Wolfe in Radical Chic – Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto – gli dà la nausea. Niente è stato più lo stesso dopo la devastante esperienza di A sangue freddo, costata anni di ricerche sul campo per giungere a narrare nel ’65, in un agghiacciante romanzo-verità, la strage di una famiglia di contadini ad opera di due balordi che in seguito saranno condannati a morte. «Era come se fossimo nati nella stessa casa e io fossi uscito dalla porta principale, e lui da quella di servizio», ha cupamente riflettuto Capote pensando alla vita di Perry Smith, uno degli assassini con cui aveva stretto un legame profondo. Gli ultimi anni – prima di morire di cirrosi epatica non ancora sessantenne a casa dell’amica Joanne Carson – li trascorre tra le paillettes dissolute dello Studio 54 e abusi d’ogni sorta, ennesima conclusione tragica di un socialite dall’indubbio fascino che ha vissuto un’esistenza larger than life, come direbbero gli americani. Del resto anche Holly – l’adorabile protagonista di Colazione da Tiffany portata sullo schermo da una superba Audrey Hepburn – si abbandona alla baraonda del bel mondo, beve smodatamente e cerca di dimenticare le proprie origini tra una festa e l’altra, un po’ come Truman...