Corriere della Sera, 18 novembre 2014
Ecco perché l’interesse generale in Italia è un’utopia. Dai parlamentari inglesi che si comprarono le elezioni a metà del 700 al welfare
Caro direttore,
verso la fine del 1700, al grande storico della caduta dell’impero romano Edward Gibbon venne proposto di acquistare, per 1.500 sterline, un seggio alla Camera dei Comuni. Nel 1761, trentasette membri del Parlamento inglese furono incoraggiati dal governo di Sua Maestà a comprarsi l’elezione, con la promessa di vedersela ripagata da adeguati contratti di concessione. Più o meno nello stesso periodo, affaristi di dubbia moralità provenienti dall’India, i «nababbi», si accaparrarono un posto ai Comuni per sfuggire alle inchieste giudiziarie. La classe politica era convinta di avere «diritto di essere mantenuta a spese dello Stato». Le cose sono rimaste sostanzialmente le stesse per molto tempo.
Lo racconta Lewis Namier nel suo studio sul Parlamento britannico nel periodo in cui veniva costruito il dominio inglese sul mondo, studio discusso nell’acuto libro di Giuseppe Berta ( Oligarchie, Il Mulino, 2014), che ci aiuta a gestire il fastidio verso la debolezza strutturale della classe parlamentare italiana: la quale, diceva Gaetano Salvemini, «è per il 10 per cento migliore, per il 10 per cento peggiore e per l’80 per cento uguale al Paese che governa».
Senonché gli inglesi si sono fatti un impero, con quel Parlamento. È vero, duecento anni fa la Perfida Albione non aveva avversari temibili, oggi la concorrenza tra sistemi e Paesi è spietata, pure dentro le case comuni come l’Unione Europea. Ma non basta. La Gran Bretagna di allora seppe definire l’«interesse nazionale» superando le ambizioni dei mercanti, l’ansia di impunità dei nababbi e pure i dubbi di Gibbon. E noi? L’Italia di oggi si dibatte in una crisi la cui gravità dipende dalla sua estensione: economia, industria, scuola, giustizia, sanità, ambiente, pubblica amministrazione. Non bastano leggi e riforme. Occorre altro. Serve la consapevolezza della vastità del nostro dissesto da parte di una società coesa, la sua disponibilità a condividere minori benefici privati oggi in cambio di maggior benessere collettivo domani.
Ma il nostro è un Paese di ricchezza recente – intrisa quindi del terrore di essere perduta – e di privilegi consolidati, accumulati da diverse categorie sociali non «insieme a» ma a «a scapito di» altri pezzi della società. Cosa accadrebbe se, per stimolare davvero il mercato del lavoro qualificato, venissero aboliti gli ordini professionali? Se, per incentivare la capitalizzazione delle imprese, si limitasse la deducibilità fiscale degli interessi passivi? Se, per ridurre il tasso di evasione, si ridefinissero i parametri di redditività dei commercianti? In un Paese dove si ritiene di non poter «contare che su se stessi» (Galli della Loggia, Corriere della Sera, 12 novembre) la rivolta delle categorie a difesa del loro «particulare» sotterrerebbe l’interesse generale. La società civile, ed in specie quella parte che si dovrebbe definire «classe dirigente», non sembra più in grado di declinare ed interpretare l’interesse del Paese. Che poi è il nostro, di interesse.
Dove è carente la società esiste lo Stato, ci ricorda Hegel. Ed è solamente lo Stato, ed innanzitutto il governo, che dovrebbe restituire unità ad una società sfilacciata. Ma bisogna essere coscienti di cosa si governa e poi sapere cosa si vuole. Comprendere quanto la crisi sia intensa e pervasiva e condividere questa consapevolezza con i cittadini sarebbe un buon punto di partenza per scelte veramente incisive.
Il governo deve indirizzare una società incerta e divisa, traducendo nei fatti ciò che è necessario per il Paese. Semplifichiamo le alternative. Da un parte, un sistema orientato al mercato: flessibilità del lavoro, privatizzazione di ciò che resta di vendibile tra le aziende a controllo pubblico, erogazione diretta del bonus a chi fa figli; nella convinzione che si debba lasciare libera la gente di produrre reddito e ricchezza, favorendo l’individualismo e il dinamismo rispetto alla coesione. Dall’altra, una società che privilegia equità e solidarietà – lo fanno pensare gli 80 euro e gli interventi sulla scuola – fondata sul principio secondo cui le comunità che gestiscono ampi sistemi di welfare e processi di redistribuzione della ricchezza sono più unite e resistenti alle crisi.
Una scelta inevitabile, anche perché la leva fiscale, strumento fondamentale della politica, è stata utilizzata oltre il dovuto e restano quindi poche mediazioni possibili. Soprattutto, si deve disporre di una «visione del mondo», di un sistema di idee. Diciamolo, di un’ideologia. Che non è una brutta parola: se ben usata, infatti, definisce un’identità e rappresenta un requisito indispensabile per la gestione del potere in quanto mezzo e non fine. E consentirebbe al governo – ed alla società che ha la responsabilità di guidare – di non ricadere nell’adagio di Montale, «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Non sarebbe questo l’interesse dell’Italia. Manager