il Giornale, 18 novembre 2014
I consigli dei grandi scrittori per chi vuole iniziare a scrivere: meno sesso e impegno militante, più fatica. Il cinismo di Balzac, la rabbia di Proust: i veri autori vivono per i propri libri. Flaubert: «Io muoio e quella puttana di Madame Bovary vivrà in eterno»
È vero che gli aspiranti scrittori mi danno sempre dello stronzo, e semplicemente perché pretendo da loro almeno un centesimo di quello che ho preteso da me stesso. E sì che oggi possono permettersi di scriverti su Facebook senza neppure averti letto. Mica come nell’Ottocento, dove per poter interloquire con Gustave Flaubert o con Émile Zola dovevi essere almeno Huysmans, disposto, per ammirazione, a farsi strapazzare da entrambi.
Per averne un’idea si prenda il magnifico libretto curato da Filippo D’Angelo Troppe puttane! Troppo canottaggio! (minimum fax, pagg. 198, euro 10). Che sarebbe il consiglio del genio Flaubert all’allievo Guy De Maupassant: «Dovete, capite, giovanotto, lavorare di più. Comincio a sospettarvi un po’ fannullone. Troppe puttane! Troppo canottaggio! Troppo esercizio!». Oggi si potrebbe aggiungere: troppi social network! Troppi blog! Troppi talk show! Troppa politica!
In realtà, a parte social network, blog e talk show, il resto c’era già tutto all’epoca. Non c’erano Santoro, Innocenzi e piazze pulite varie, ma Flaubert già non ne poteva più del sociale: «Il problema sociale mi rivolta profondamente. Scommetto che, fra cinquant’anni soltanto, espressioni come “problema sociale”, “moralizzazione delle masse”, “progresso e democrazia” saranno passate allo stato di tiritera e sembreranno altrettanto grottesche di quelle come “sensibilità”, “natura”, “pregiudizi” e “dolci legami del cuore”». Scommessa persa, perché siamo ancora qui tra la passione civile di Saviano, i sogni di Gramellini e una puntata di Report contro un piumino e i dolcificanti.
In ogni caso i consigli erano lavorare sodo, sacrificare tutto alla letteratura, rinunciare a vivere e soprattutto a fare i giornalisti, consiglio dato anche da Étienne Lousteau a Lucien De Rubempré nelle Illusioni perdute di Balzac. «E non crediate che il mondo politico sia migliore di quello letterario: tutto è, in entrambi, corruzione, e ogni individuo corruttore e corrotto». Insomma, come il Premio Strega di oggi.
Il mondo del giornalismo è sempre stato oggetto di attrazione e di rigetto. Da una parte ha dato da vivere a molti scrittori, dall’altra per sua natura piega la parola alle esigenze della quotidianità. Definizione di André Gide: «Chiamo giornalismo, in letteratura, tutto ciò che domani interesserà meno di oggi». Ancora più netto Flaubert: «Stare alla larga dai giornali! L’odio di quelle botteghe è l’inizio dell’amore per il Bello». Per carità, non conoscevano la televisione italiana, e non riesco a immaginarmi Flaubert a una puntata di Otto e Mezzo o Annozero, dove non si vede mai uno scrittore vero, almeno sulle terze pagine prima o poi qualcosa passa (su Repubblica mai). Tranne Aldo Busi quando per presentare un libro va a parlare di politica e morale da Lilli Gruber, anche lei scrittrice, che presenterà il libro da Daria Bignardi, giornalista, conduttrice e scrittrice e così via, e poi tutti dal prete a farsi benedire, cioè da Fabio Fazio. Eugenio Scalfari, infatti, è nei Meridiani Mondadori, un classico, il più grande scrittore vivente.
Stare alla larga dalle consorterie, dai gruppi, dalle scuole (cosa che diceva Émile Zola all’aspirante scrittore Antony Valabrègue senza sapere che sarebbe diventato lui stesso il venerato maestro della scuola naturalista). Dai critici non ne parliamo: da oltre un secolo ripetono il refrain «il romanzo è morto» quando a morire sono solo loro. In Italia oggi abbiamo dei piccoli circoli di signore perbene e dalle acconciature più o meno vistose: la signora Berardinelli, la signora Cortellessa, e se nessuna ti prende si può provare a aprire la signora La Porta, spesso aperta. I critici ti mandano i loro libri con dediche affettuose, sperando tu li recensisca bene e, per uno strano ribaltamento dei ruoli, li definisca scrittori. Se ci caschi anziché Parente puoi diventare un Nicola Lagioia qualsiasi e un Amico della domenica honoris causa.
Eppure, caro aspirante scrittore, basti rammentare le lettere ossequiose di Baudelaire a Sainte-Beuve. A rimettere le cose e la gerarchia a posto c’è voluto Proust, con il suo Contro Sainte-Beuve. Con un imperativo assoluto: conta solo l’opera, per la quale uno scrittore deve essere disposto non a vivere, ma a morirne.
D’altra parte lo sapeva benissimo anche Flaubert, al quale il brillante curatore Filippo D’Angelo giustamente dedica l’ultima riflessione dell’antologia, ricordando un paradigmatico aneddoto: «Si dice che Flaubert, in punto di morte, mentre agonizzava fra terribili sofferenze, abbia esclamato: “Io muoio come un cane, e quella puttana di Madame Bovary vivrà per sempre!”. È questa la morte a cui ambisce ogni vero scrittore».