il Giornale, 18 novembre 2014
Viaggio nella terra del Califfo, nella stanza del cappio dove l’Isis trucida gli infedeli. È la sede di uno dei tribunali dello Stato islamico che applicano la sharia. Qui sono avvenute torture e impiccagioni
La villetta con le colonne è immersa nelle palme ed annerita dalle fiamme. Il colonnello Abbas Al Assady apre la strada con i volontari di Karbala, la città santa degli sciiti, che tirano un calcio alla porta di ferro di uno degli ingressi. La prima impressione è che qualcuno abbia appiccato il fuoco in fretta e furia in alcune stanze per eliminare qualsiasi traccia. L’interno è annerito, ma in una stanza angusta pende dal soffitto un orribile cappio. «È la stanza della morte del Califfato – spiega l’ufficiale – In questo posto i terroristi applicavano la loro folle giustizia». In pratica era la sede di uno dei tribunali dello Stato islamico che decidono, secondo un’interpretazione medievale della sharia, la legge del Corano, chi deve morire. A molti spettava la forca, che forse era usata come forma di tortura per far soffocare lentamente il prigioniero. «Se guardate bene c’è del sangue rappreso sul cappio – sottolinea il colonnello – Impiccavano chiunque non fosse d’accordo con il Califfo». Delle tracce di sangue si notano anche su dei cartoni che coprono una specie di sgabello metallico per l’improvvisata forca. Impossibile trovare delle vere prove andate in fumo con l’incendio, ma i miliziani sciiti giurano che sono stati dei testimoni del posto, sopravissuti alla mattanza, ad indicare la stanza della morte di Jurf al Shakar a sud ovest di Baghdad. Dalla roccaforte sunnita il Califfato ha dovuto battere in ritirata dopo giorni di furiosa battaglia. Il colonnello Al Assady, che ha un passaporto norvegese viveva da 23 anni ad Oslo con la famiglia. Quest’estate ha risposto all’appello del Marja, il grande ayatollah iracheno, Ali al Sistani per arginare l’avanzata del Califfo.
I suoi volontari mostrano orgogliosi la tunica e pantaloni a sbuffo in stile afghano, la foto di un guerrigliero saudita, la sim di un cellulare di Ryad scovati fra i ruderi della battaglia. Il ritrovamento più ambito è una scheda plastificata con i nomi dei combattenti jihadisti come Abu Hafsa l’afghano oppure Abu Omar al Kallati il saudita.
Gli stranieri, nei ranghi dello Stato islamico, combattono anche sul fronte opposto, a Tikrit, la città a nord di Baghdad dove è nato il defunto dittatore Saddam Hussein. L’intelligence irachena ha intercettato 5 americani votati alla guerra santa, che parlavano via radio in inglese. La prima linea corre lungo la periferia della città sunnita. Dietro i sacchetti di sabbia il mitragliere ha un elmetto con dipinti sopra dei teschi bianchi. Prima spara all’impazzata e poi tira su il pollice facendo segno che ha centrato il bersaglio. Cinquecento metri più in là, dopo una distesa arida, le postazioni del Califfato sono nascoste in un grosso edificio marrone ridotto ad un groviera dai proiettili e annerito dal lancio dei razzi.
La 5° brigata speciale Al Battar tiene il fronte strategico di Tikrit sulla strada che porta a Mosul, la «capitale» irachena del Califfo. I variopinti soldati sciiti attestati fra le macerie sono comandati dal generale Hamid Karim, che se non portasse le stellette potrebbe fare l’attore in qualche film di guerra. Basco amaranto e mimetica si inerpica sul piccolo vallo di sabbia usato come difesa con un bazooka in spalla. Poi prende la mira e lancia il razzo contro le postazioni jihadiste sollevando una nuvola di polvere. Per i suoi è il via libera a scaricare tutto quello che hanno sul nemico. Un ufficiale con il panzone tira sventagliate alzando la mitragliatrice sopra la testa. I più arditi si espongono, altri sparano per poi accucciarsi al riparo. Un veterano sibila «sniper, sniper» e ti consiglia di stare dietro un blindato per evitare i cecchini dello Stato islamico.
Il generale Karimi non ha dubbi: «Se Allah vuole fra una o due settimane attacchiamo e spazziamo via il Califfato e gli ex di Saddam che combattono al loro fianco». Peccato che in mezzo c’è la «valle della morte», come è stata ribattezzata la terra di nessuno, dove i terroristi suicidi si lanciano contro le postazioni governative con camion imbottiti di tritolo e protetti da una corazza di lamiere.
Un cumulo di macerie è quello che resta, all’ingresso di Tikrit, del mausoleo di Saddam Hussein impiccato nel 2006 per i suoi crimini. L’artiglieria e forse qualche bomba dal cielo hanno pestato duro. Il corpo era stato portato via, in un luogo segreto, qualche mese fa dalla tribù dell’ex dittatore, che temeva il peggio. Un miliziano sciita ci guida fino ai resti di uno stanzone con il soffitto semi crollato indicandoci con tono solenne: «Questo è il punto esatto dove si trovava la tomba di Saddam». Al suo posto è rimasto solo un tappeto di calcinacci.