Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2014
«In nessun modo il regime di Assad può essere un alleato della guerra al terrorismo: ha provocato la morte di 200mila persone. Le sue dimissioni sono il primo passo necessario per salvare la Siria dal terrore». Il ministro degli Esteri del Qatar Khalid Al Attyia: «Un ruolo strategico di Italia e Algeria in Libia»
«In nessun modo il regime di Bashar Assad può essere un alleato della guerra al terrorismo: ha provocato la morte di 200mila persone» e se l’Isis esiste è colpa soprattutto sua. «Le sue dimissioni sono il primo passo necessario per salvare la Siria dal terrore», dice Khalid Al Attyia, 47 anni, ministro degli Esteri del Qatar.
Un tempo il Paese guida del mondo arabo era sovrappopolato, povero ma iper-armato: era l’Egitto. Oggi uno dei più determinanti ha meno di 300mila abitanti, assieme al Lussemburgo ha il più alto Pil pro capite del mondo e per la sua difesa si affida alla protezione americana: è il Qatar. Il piccolo ma ricchissimo emirato del Golfo si era distinto per la sua diplomazia flessibile capace di avere buoni rapporti con tutti: israeliani e palestinesi, sauditi e iraniani, islamisti e laici. Dall’inizio delle Primavere è dentro la mischia con un ruolo di primo piano in ogni conflitto: Libia, Egitto, Siria, Iraq. «No, la nostra resta sempre una politica della porta aperta a tutti», ribatte il ministro.
Forse in Libia non tutti sono d’accordo. C’è una soluzione per quel caos?
Solo chi guarda la Libia da lontano crede sia un problema insolubile. Conoscendone la natura, in realtà non è così complicato. Il punto di partenza è discutere. Per questo l’Italia può giocare un ruolo molto costruttivo, assieme all’Algeria.
Non l’Egitto?
I Paesi vicini più coinvolti hanno un ruolo chiave. Ma quando dico che Italia e Algeria hanno un grande ruolo, intendo che la maggioranza dei libici si sentirebbe più sicura se questi due Paesi incoraggiassero il dialogo.
Non sembra che il Qatar e la Turchia, appoggiando una fazione, e l’Egitto e gli Emirati, appoggiandone un’altra, siano di grande aiuto.
Non sono d’accordo. Il Qatar non sta facendo un gioco di potere: siamo i primi a incoraggiare il dialogo nazionale. Dal primo giorno sosteniamo la legittimità delle istituzioni nate dalla rivoluzione. Pensiamo che oggi esista per tutti una nuova opportunità di riprendere il dialogo.
Quello che sembra mancare in Libia e in tutta la regione è l’inclusività: chiunque vuole eliminare l’avversario e governare da solo.
È fondamentale per la stabilità del Medio Oriente. La Tunisia è un eccellente esempio di inclusività. Anche il dialogo nazionale nello Yemen aveva funzionato, prima di essere abbandonato a se stesso. Ma in generale le Primavere sono come tutte le rivoluzioni: occorre tempo, decenni di dittature non si superano facilmente. Se le Primavere sono diventate settarie è per interessi di potere: lo scontro fra sciiti e sunniti prima non esisteva. È il caso di Bashar Assad che alla sua gente ha lasciato solo due opzioni: il terrorismo o la tirannia del suo regime.
L’Isis in Siria e Iraq è oggi il pericolo più immediato. È possibile che i Paesi arabi decidano di mandare le loro truppe a combatterlo?
Un paio d’anni fa l’emiro al-Thani aveva proposto di creare un corpo di caschi blu della Lega Araba. Non si batte il terrorismo combattendo solo dal cielo: il modo migliore è farlo dall’interno dell’ambiente sociale nel quale è nato. Come Amici della Siria avevamo perso tempo a valutare la moderazione e l’estremismo delle varie forze in campo. Quando finalmente li abbiamo individuati, i moderati erano diventati radicali perché non avevamo dato loro armi e risorse per resistere al regime. È stato il nostro errore più grande.
Intende dire che sul campo l’Isis la devono combattere siriani e irakeni?
Esattamente. E dobbiamo aiutarli contro ogni forma di dittatura. L’Iraq ha un governo che non commette più gli errori di al Maliki. In Siria, invece, c’è Assad.
Sembra evidente che la caduta del suo regime sia la priorità del Qatar. Quella dell’Occidente è invece l’eliminazione dell’Isis. Alleati con agende diverse non sono d’aiuto in guerra.
Nelle grandi linee non ci sono differenze. Tutti ci opponiamo al regime di Assad. Nei dettagli ci sono differenze. Per alcuni è l’Isis la minaccia principale. Lo è anche per altri, i quali pensano che si debbano combattere le cause del terrorismo. La causa è il regime siriano: non fosse stato così brutale, non avrebbe attirato terroristi di tutto il mondo.
Queste differenze potrebbero rendere più lunga la guerra all’Isis.
Sono già stati fatti dei passi per accorciare la guerra. Non posso dire molto ma ci sono discussioni fra i veri amici della Siria.
I Paesi del Golfo, compreso il Qatar, sono stati accusati di essere stati all’inizio troppo tolleranti con l’Isis.
La nostra posizione è chiara ma non consideriamo terroristi tutti coloro che combattono in Siria. Non pensiamo che altre fazioni islamiste siano estremiste. Se sei in mezzo a una crisi, ti rivolgi a Dio: questo non è essere estremisti. Con al Qaida e l’Isis non parliamo. Ma ciò non significa che ci rifiutiamo di farlo con chiunque porti una barba.
Secondo alcune agenzie d’intelligence, però, in Kuwait e Qatar continuerebbero a esistere finanziatori privati dell’Isis.
I nostri amici occidentali sanno molto bene che non è vero.
L’Amministrazione Obama è riluttante a guidare come in passato. Un ritiro americano dalla regione è un bene o un male per il Medio Oriente?
La questione dovrebbe essere girata a tutti noi: siamo preparati a questo eventuale ritiro? Abbiamo relazioni strategiche di ogni tipo con gli Stati Uniti, non solo militari: a Doha abbiamo sei grandi università americane, investimenti nell’energia, le loro più grandi multinazionali. Dobbiamo chiederci se siamo pronti a fare da soli. Io penso che Dio non abbia creato l’America per proteggerci ma per essere nostra alleata.