La Stampa, 18 novembre 2014
Paulucci, il portiere pittore, in un’antologica al museo della Juve
«La pittura è stata la mia vita», diceva nei suoi ultimi anni. Una (parziale) bugia. Per Enrico Paulucci la pittura era stata tanta parte di una lunga vita, terminata a Torino il 22 agosto 1999, a 98 anni, ma non«tutta» la vita. Prima, fino ai 19 anni, c’era stata la Juventus. Dalle giovanili alla prima squadra: quindici, venti partite a difendere i pali della Signora non ancora Vecchia nel campionato 1919-1920 – neppure lui ricordava bene quante, e per l’epoca antegirone unico le statistiche non soccorrono –, quando il portiere titolare, un certo Giacone, si era infortunato.
Di quell’accensione brevissima, come la luce di un fiammifero, al pittore dei Sei di Torino, al maestro delle marine e delle vele, della primigenia gioia cromatica in cui riviveva il ricordo della natia Liguria (da dove ancora bambino si era spostato a Torino, al seguito del padre, il generale marchese Paolo Paulucci delle Roncole), era rimasta una traccia indelebile, macerata nella nostalgia. E adesso la squadra dei suoi sogni gli dedica una doverosa antologica, in quello Juventus Museum che proprio nei giorni scorsi ha toccato il tetto dei 400 mila visitatori, a due anni e mezzo dall’apertura, e nell’ambito di un programma che vorrebbe far rivivere lo spirito dei padri fondatori, quando il calcio era in primo luogo un fatto di cultura, dipaideia nel senso greco del termine (ogni facile sarcasmo, al confronto con l’oggi, è fuori luogo).
La mostra si intitola «Un pittore in porta» e sarà aperta al pubblico da domani: 23 opere tra quadri e disegni, più fotografie, lettere e documenti vari, messi insieme dalla curatrice dell’Archivio Paulucci, Laura Riccio. Racconta di un’epoca in cui «i campi di football erano prati, dai pioppi a primavera cadevano i fiocchi bianchi, le tribune erano quattro assi di legno» (come ricordava il pittore in una lettera del ’90) e quando «ci compravamo tutto: le scarpe, le magliette...» (altra testimonianza, datata 1997). Sugli spalti gli uomini portavano la paglietta, non di rado accompagnati da eleganti madamine, e se talvolta ci scappava una maschia scazzottata poteva essere per qualche complimento un po’ audace alla signora di turno.
Due tele rendono emblematicamente l’idea della mostra. In una, un olio del 1970, titolo Autoritratto giovanile, si vede un ragazzo in calzoncini bianchi e maglia nera, guanti marroni e pallone color cuoio ai piedi, accanto al palo di una porta; in calce, di pugno dell’artista, «Paulucci 1919-20. Portiere Juve. Non sarà mai più così bello il gioco». Nell’altra, del 1980, intitolata Il pittore juventino. Autoritratto, gli elementi essenziali della personalità artistica e umana di Paulucci sono riuniti in un insieme in cui, su uno sfondo di mare blu, vele bianche, cielo azzurro e nuvole tortuose, si vede il pittore, in primo piano, con la tavolozza in mano, e dietro di lui, più piccolo, più lontano (nello spazio, nel tempo), il portiere in calzoncini davanti alla porta con la palla ai piedi: sessant’anni dopo, ancora lì indugiava il pensiero.
E poi ci sono altre opere di soggetto calcistico: Juventus, una partita, tecnica mista del 1950, Il giocatore, matita su carta del 1960, Partita internazionale, tecnica mista del 1988. Ma, a sintetizzare la parabola dell’artista, ci sono anche quadri del periodo dei Sei (fine Anni 20), del periodo romano (fine Anni 30), della successiva fase astratta. E il ricordo dell’antica passione riaffiora dove meno te l’aspetti, come nel bellissimo olio del 1950Cappotto rosso, dove un’elegante signora siede su una poltrona a vistose strisce bianche e nere (un quadro che ha sempre tenuto accanto a sé, nell’appartamento-studio torinese di piazza Vittorio Veneto, accanto agli amati testi dei poeti francesi).
«W la Juve! W i Gobbi!», scriveva Paulucci dedicando all’amico Alessandro Riccio una foto della squadra in cui giocò. Di quel tempo ruggente, in un documentario trasmesso dalla Rai negli Anni 80, amava ricordava lo spirito goliardico: le gare delle cimici organizzate con i compagni in un alberghetto romano di piazza Barberini, non troppo pulito, in attesa di andare a giocare con la Fortitudo, le canzoni «tremende», come quella, in francese, che proclamava «Juventus batie sur pierre, Juventus ne périra pas» o quell’altra che diceva «la gioventù di cui portiamo il nome / ci pulsa appien nei muscoli e nel cuor», inneggiando al valore bianconero anche sui campi della Grande Guerra. E di sé ricordava di essere stato «un portiere di peso leggero, però molto agile e abbastanza coraggioso», lodato dai critici perché «abilissimo nei plongeons» come allora francesizzando si chiamavano i tuffi. «Insomma ero un po’ il beniamino del pubblico», aggiungeva, «mi chiamavano Ciucci, c’erano sempre delle ragazzine intorno alla mia porta».
Ma al termine di quell’annata il portierino si trovava ormai al bivio: già studente ginnasiale al Sociale (compagno di Pier Giorgio Frassati), poi liceale in quel D’Azeglio culla juventina che darà ai suoi allievi l’impronta morale e civile dell’antifascismo, Paulucci era sempre più preso dagli studi (si laureerà in economia e in legge) e attratto dalla pittura. Riunito con i Sei nell’opposizione all’arte di regime, diventerà docente e poi direttore all’Accademia Albertina, lavorerà come arredatore e come scenografo per il cinema e il teatro. «I pennelli non mi cadevano di mano, il pallone qualche volta sì», spiegò la sua conversione. In fondo, sempre di un lavoro di mani si trattava.
La spinta decisiva gliela diede un certo Gianpiero Combi. «Era sempre stato dietro di me, giocava in terza squadra quando io ero nelle riserve, e nelle riserve quando io ero passato in prima squadra. Dopo le vacanze estive del 1920 me lo ritrovai più alto di me di una spanna, un pezzo di ragazzo, e poi bravissimo. Naturalmente prese il mio posto». Combi sarebbe diventato uno dei portieri più forti di sempre, il Buffon degli Anni 20-30. Paulucci cambiò mestiere e cominciò a riempire tele su tele su colori gioiosi. Ma il gioco non sarebbe mai più stato così bello.