Corriere della Sera, 18 novembre 2014
Knut Hamsun, lo scrittore premio Nobel che si innamorò del nazismo, e che poi pagò tutte le colpe del Furher. Rinchiuso tra maniconi e ospizi, fu privato della lettura di libri e giornali, divenne vittima di «incredibili perizie psichiatriche» e fu «costretto a pescare la corrispondenza nel lago di minestra e caffé che si formava nel suo vassoio»
Oramai quasi novantenne, Knut Hamsun fu costretto a girare tra manicomi e ospizi, sottoposto ad atroci soprusi da parte di carcerieri che non nutrivano soggezione alcuna per uno scrittore che pure nel 1929 era stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Il romanzo che lo aveva reso famoso, Pan, era del 1894, Fame del 1900, lo stesso anno dell’ Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Thomas Mann, Bertolt Brecht e Gottfried Benn riconoscevano nei suoi romanzi una delle vette della narrativa europea.
Ma dopo il 1945 questo gigante della cultura norvegese ed europea venne «umiliato in modi anche gratuiti», come ha scritto Filippo La Porta. Privato della lettura di libri e giornali, escluso dal prestito della biblioteca dell’ospizio (ed era pure quasi cieco), divenne vittima di «incredibili perizie psichiatriche» e, è ancora La Porta che scrive, fu «costretto a pescare la corrispondenza nel lago di minestra e caffé che si formava nel suo vassoio». Come mai questo trattamento crudele per uno scrittore tanto prestigioso? Perché si era infatuato così spudoratamente del nazismo da fare omaggio a Goebbels della sua medaglia del Nobel. Perché aveva vergato un servile panegirico all’Hitler trionfante. Perché aveva «tradito la Patria norvegese», accodandosi al governo fantoccio filonazista di Quisling. Perché aveva frequentato il Male assoluto. Perché aveva radicalizzato così furiosamente la sua protesta contro la modernità, la città, l’industria senz’anima che schiaccia gli individui, e aveva così idealizzato un culto per la Natura incontaminata e «autentica», da vedere nel nazismo e nel suo Führer il compimento di un eroico destino. Perciò doveva essere punito. E nelle forme più spietate.
In questi giorni l’editore Fazi ripubblica opportunamente un grande documento della condizione spirituale degli intellettuali nell’epoca dei totalitarismi: Per i sentieri dove cresce l’erba. È il resoconto dettagliato della punizione che Knut Hamsun dovette scontare per aver fornito idee, suggestioni, atmosfere, oggi si direbbe «narrazione», alla causa demoniaca del nazismo. Non si poteva tollerare che intellettuali prestigiosi avessero messo la loro penna o le loro tele al servizio di una causa dannata. Perciò la vicenda di Hamsun risulta ancora oggi conturbante. Le idee e le persone che le incarnavano vennero caricate di una responsabilità storica in una misura inedita nella storia moderna. Tra le parole e le cose la distanza fu abolita. Il fiancheggiamento ideologico dell’orrore venne equiparato all’orrore stesso. Non poteva esserci differenza tra uno scrittore e un aguzzino di Auschwitz. Un grande giurista che servì senza riserve ogni atto del nazismo, Carl Schmitt, venne messo in prigione per un anno e mezzo e portato alla sbarra a Norimberga come «maggior criminale dal punto di vista morale». Le pagine del suo Ex captivitate salus (tradotto e pubblicato in Italia da Adelphi) assomigliano in modo impressionante a quelle di Hamsun in Nei sentieri dove cresce l’erba. Affiora in entrambi lo sconcerto per qualcosa di inaudito: l’equiparazione «dal punto di vista morale» dell’adesione intellettuale a un regime rispetto alle nefandezze da esso compiuto. Portare argomenti intellettuali a un regime che si è macchiato di crimini contro l’umanità diventò esso stesso un crimine contro l’umanità.
Per questo l’«epurazione» post-nazista non ha risparmiato gli scrittori e i filosofi coinvolti con il Male. In Francia Robert Brasillach, il più celebre dei cantori del collaborazionismo con i nazisti (assieme a Pierre Drieu La Rochelle, suicida nella temperie della sconfitta), era stato condannato a morte. Louis-Ferdinand Céline conobbe l’esilio. Martin Heidegger, raccontano i suoi biografi, visse quegli anni nell’incubo «d’essere privato della sua biblioteca» e, allontanato dall’accademia, recluso nel suo «rifugio» nella Foresta Nera, riceveva i libri recapitati regolarmente con le pagine strappate con cura dai sorveglianti. Ed è nota la sorte di Ezra Pound, il grande poeta americano che non negò i suoi servigi al regime mussoliniano e che venne trattato come un traditore, prima rinchiuso in una «gabbia per gorilla» nel campo di Coltano vicino a Pisa, e poi segregato per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeths a Washington. Una sequenza ancor più impressionante se si pensa alla distanza assoluta tra le parole e le cose, tra il limbo d’innocenza in cui sono stati protetti gli intellettuali che si sono consacrati ad altre cause portatrici di morte e massacri e la storia «effettuale» scaturita da quelle idee.
Chi ha potuto far notare a Louis Aragon la vergogna di aver intonato un inno imbarazzante ai carnefici della Gpu, la polizia segreta sovietica, o al poeta Pablo Neruda quella di aver dato manforte agli assassini del poeta Mandel’štam? E le legioni di intellettuali occidentali che hanno osannato la Rivoluzione culturale di Mao malgrado i campi di concentramento e le esecuzioni di massa? E i sostenitori dell’aguzzino Pol Pot che fece strage in tre anni di un terzo della popolazione cambogiana? Per un inno a Stalin, mentre il Gulag raggiungeva vertici di spaventosa crudeltà, non si è mai avuta condanna e anzi la reputazione degli adulatori non ha mai subìto alterazioni. Per uno a Hitler, Hamsun venne rinchiuso in manicomio criminale sulla soglia dei novant’anni, e con lui Pound, Heidegger e Céline.
Può darsi che questo duplice esito fosse inevitabile. Ma certo non si può negare che in quello scorcio tragico della storia le «idee» non hanno goduto del privilegio solitamente loro accordato dai princìpi della libertà d’opinione. In quell’apocalisse non si potevano implorare sconti e la spietatezza dei tempi non poteva risparmiare un vegliardo come Knut Hamsun? Può darsi, ma Per i sentieri dove cresce l’erba è un documento eloquente di quella tragedia.