La Stampa, 18 novembre 2014
I problemi dell’Italia sono gli stessi dal 1953. Come scriveva Longanesi, la «vita italiana» era un inestricabile garbuglio di affannate e vane ripetizioni: il «gran correre avanti e indietro senza precisi scopi», il «disordine e l’arruffio», «il fare e il disfare», «le affannose e inutili e ridicole e patetiche contraddizioni»
Nel 1953 il grande giornalista Leo Longanesi ebbe a descrivere la «vita italiana» come un macroscopico, inestricabile garbuglio di affannate e vane ripetizioni: il «gran correre avanti e indietro senza precisi scopi», il «disordine e l’arruffio», «il fare e il disfare», «le affannose e inutili e ridicole e patetiche contraddizioni».
Longanesi non era incline all’ottimismo, e magari in questo caso ha ecceduto con l’inclemenza. Ieri tuttavia non ho potuto fare a meno di ripensare a quanto c’è di vero in questo suo giudizio. Ieri infatti, nello scorrere uno scritto di Giovanni Malagodi per puro caso datato anch’esso 1953, sono rimasto stupefatto nel trovarmi davanti agli stessi identici argomenti che avevo letto nel bell’editoriale di Luca Ricolfi pubblicato domenica scorsa su questo giornale. Come esempio del fare e del disfare, del gran correre avanti e indietro senza precisi scopi che pare segnare la nostra vicenda nazionale mi è parso – ahimè, ahinoi – sbalorditivo: sessant’anni fa era possibile formulare sull’Italia un giudizio concettualmente indistinguibile da quello che ne diamo oggi. Come se negli ultimi sei decenni, malgrado trasformazioni che così profonde non se n’erano mai vista prima, certe costanti della politica italiana siano riuscite a conservarsi immutate.
Di seguito il lettore troverà la pagina conclusiva dello scritto di Malagodi, una conferenza tenuta – nel 1953, appunto – a Roma presso il Centro di alti studi militari. Giovanni Malagodi (Londra 1904, Roma 1991), dopo una carriera nell’alta dirigenza bancaria, fu eletto deputato coi liberali nel 1953, e del Pli fu segretario generale dal 1954 al 1972, segnalandosi per l’opposizione dura alla maggioranza di centro sinistra che prese forma fra il 1962 e il 1964. Nel 1972-73 fu ministro del Tesoro nel secondo governo Andreotti. Coltissimo, poliglotta e cosmopolita, fu anche due volte presidente dell’Internazionale Liberale, dal 1958 al 1966 e dal 1982 al 1989. Fra il 1947 e il 1953, ossia nel torno di tempo in cui pronunciò le parole che seguono, fu consulente del governo per le questioni economiche e rappresentò l’Italia in conferenze e organismi internazionali. In questi anni non mancò mai di insistere sul nesso fra la ricostruzione interna della Penisola e il contesto politico ed economico internazionale – nesso che a suo avviso la politica continuava a ignorare «per non esserne disturbata», mettendo così a repentaglio il futuro del Paese.
Longanesi non era incline all’ottimismo, e magari in questo caso ha ecceduto con l’inclemenza. Ieri tuttavia non ho potuto fare a meno di ripensare a quanto c’è di vero in questo suo giudizio. Ieri infatti, nello scorrere uno scritto di Giovanni Malagodi per puro caso datato anch’esso 1953, sono rimasto stupefatto nel trovarmi davanti agli stessi identici argomenti che avevo letto nel bell’editoriale di Luca Ricolfi pubblicato domenica scorsa su questo giornale. Come esempio del fare e del disfare, del gran correre avanti e indietro senza precisi scopi che pare segnare la nostra vicenda nazionale mi è parso – ahimè, ahinoi – sbalorditivo: sessant’anni fa era possibile formulare sull’Italia un giudizio concettualmente indistinguibile da quello che ne diamo oggi. Come se negli ultimi sei decenni, malgrado trasformazioni che così profonde non se n’erano mai vista prima, certe costanti della politica italiana siano riuscite a conservarsi immutate.
Di seguito il lettore troverà la pagina conclusiva dello scritto di Malagodi, una conferenza tenuta – nel 1953, appunto – a Roma presso il Centro di alti studi militari. Giovanni Malagodi (Londra 1904, Roma 1991), dopo una carriera nell’alta dirigenza bancaria, fu eletto deputato coi liberali nel 1953, e del Pli fu segretario generale dal 1954 al 1972, segnalandosi per l’opposizione dura alla maggioranza di centro sinistra che prese forma fra il 1962 e il 1964. Nel 1972-73 fu ministro del Tesoro nel secondo governo Andreotti. Coltissimo, poliglotta e cosmopolita, fu anche due volte presidente dell’Internazionale Liberale, dal 1958 al 1966 e dal 1982 al 1989. Fra il 1947 e il 1953, ossia nel torno di tempo in cui pronunciò le parole che seguono, fu consulente del governo per le questioni economiche e rappresentò l’Italia in conferenze e organismi internazionali. In questi anni non mancò mai di insistere sul nesso fra la ricostruzione interna della Penisola e il contesto politico ed economico internazionale – nesso che a suo avviso la politica continuava a ignorare «per non esserne disturbata», mettendo così a repentaglio il futuro del Paese.
Giovanni Orsina
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Vorrei fare ora una piccola considerazione finale. Si legge di tanto in tanto sui giornali che certi problemi italiani sono così grossi che non sono più italiani, sono problemi altrui. Questa parola è stata scritta su un giornale influente, senza firma, ciò che mi ha risparmiato una litigata forte con chi l’ha scritta perché non so chi sia e cerco di non saperlo. Si sente anche dire che in generale, in fondo è l’America che deve fare tutto, se l’America non fa questo e questo e questo, quello che possa fare l’Europa non serve a niente, poi figuriamoci se serve a qualche cosa quello che può fare l’Italia!
Ora io vorrei dire soltanto questo, basandomi anche sulla esperienza di cinque anni di lavoro in questo campo: non ci sono «problemi altrui», tutti i problemi sono nostri, anche il problema della politica interna americana in materia di emigrazione è un problema nostro nel quale noi dobbiamo avere una opinione, sul quale noi dobbiamo influire. Senza parlarne mai pubblicamente forse, ma dobbiamo influire in due modi: discutendo con buoni argomenti e dando a chi discute sufficiente autorità e non col dargli dei titoli più o meno elevati nella gerarchia che non servono a niente, ma dandogli la possibilità di mostrare quello che in casa si sta facendo per risolvere i nostri problemi.
La nostra autorità fuori è in funzione del 110% di quello che facciamo in casa. Noi non contiamo niente in nessuna discussione fuori se non nella misura in cui possiamo dire che in casa stiamo facendo determinate cose. Questo è vero nel campo civile, è vero nel campo militare e questo è il punto in cui siamo più deboli perché non abbiamo mai fatto tutto quello che potremmo in casa e questa è una umana debolezza, ma soprattutto anche molte delle cose che abbiamo fatte in casa non erano e non sono sufficientemente coordinate a quelle che sono le discussioni, le necessità che dobbiamo far valere fuori. Il dire che certi nostri problemi sono “problemi altrui” non è solo una vergogna ma è anche un enorme errore perché si finisce col fare in casa delle cose che non hanno riferimento a quei problemi e col non ottenere poi fuori l’appoggio necessario per risolverli.
E quindi vorrei proprio concludere con queste parole: non ci sono problemi altrui, tutti i problemi dell’Occidente sono nostri problemi e noi di quei problemi, ne possiamo parlare solo in quanto li consideriamo come nostri, anche quando sono prevalentemente altrui, da un punto di vista materiale.
Giovanni Malagodi
Ora io vorrei dire soltanto questo, basandomi anche sulla esperienza di cinque anni di lavoro in questo campo: non ci sono «problemi altrui», tutti i problemi sono nostri, anche il problema della politica interna americana in materia di emigrazione è un problema nostro nel quale noi dobbiamo avere una opinione, sul quale noi dobbiamo influire. Senza parlarne mai pubblicamente forse, ma dobbiamo influire in due modi: discutendo con buoni argomenti e dando a chi discute sufficiente autorità e non col dargli dei titoli più o meno elevati nella gerarchia che non servono a niente, ma dandogli la possibilità di mostrare quello che in casa si sta facendo per risolvere i nostri problemi.
La nostra autorità fuori è in funzione del 110% di quello che facciamo in casa. Noi non contiamo niente in nessuna discussione fuori se non nella misura in cui possiamo dire che in casa stiamo facendo determinate cose. Questo è vero nel campo civile, è vero nel campo militare e questo è il punto in cui siamo più deboli perché non abbiamo mai fatto tutto quello che potremmo in casa e questa è una umana debolezza, ma soprattutto anche molte delle cose che abbiamo fatte in casa non erano e non sono sufficientemente coordinate a quelle che sono le discussioni, le necessità che dobbiamo far valere fuori. Il dire che certi nostri problemi sono “problemi altrui” non è solo una vergogna ma è anche un enorme errore perché si finisce col fare in casa delle cose che non hanno riferimento a quei problemi e col non ottenere poi fuori l’appoggio necessario per risolverli.
E quindi vorrei proprio concludere con queste parole: non ci sono problemi altrui, tutti i problemi dell’Occidente sono nostri problemi e noi di quei problemi, ne possiamo parlare solo in quanto li consideriamo come nostri, anche quando sono prevalentemente altrui, da un punto di vista materiale.
Giovanni Malagodi