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 2014  novembre 17 Lunedì calendario

Gualtiero Marchesi, artista della cucina odia i clienti ignoranti, incivili, rozzi e filistei. «Cracco, Oldani e Berton sono bravi, ma io resto il migliore!»

Gualtiero Marchesi è il cuoco italiano più famoso al mondo. È anche un signore d’altri tempi, e non per questioni anagrafiche. È vero che nel marzo prossimo gli anni saranno 85, ma il fatto è che lui stesso si è sempre sentito «un po’ inglese», quel genere di gentleman «che attraversa la città di Londra senza farsi notare». Lui però in realtà si fa notare: per i piatti, i ristoranti, le polemiche, le stelle prima guadagnate, poi perdute, infine rigettate al mittente (la Michelin). E perché lavora sempre: la neonata Accademia dei cuochi a Milano (in via Bonvesin de la Riva, la stessa strada del suo primo, storico ristorante), il Marchesino alla Scala, il nuovo Resort che deve inaugurare a Conturbia, il ruolo di rettore ad Alma, la scuola di cucina a Colorno, vicino a Parma. Ci sono il successo, i premi, le critiche, gli eredi celebri (quasi tutti, da Cracco a Oldani a Berton a Leeman, ma perfino Pierangelini passò dai suoi fornelli), la nouvelle cousine all’italiana, e c’è un signore che ti apre la portiera della macchina per farti salire come fosse una Rolls Royce, anche se in effetti è una utilitaria «perché sa, io sono un jaguarista, nel senso che come macchine da sciuri mi piacciono le Jaguar, ma me l’hanno appena rubata, proprio qui sotto casa». E allora un po’ a colpi di clacson e un po’ infilandosi qua e là nelle viuzze, ti sposti con lui dall’Accademia al Marchesino, i due luoghi di una lunga chiacchierata, i due poli della sua attività: la scuola e il ristorante, l’insegnamento e la cucina.
Che cosa le piace di più?
«Insegnare. Vorrei trasmettere questo sapere ai cuochi, agli studenti: almeno qualche nozione base. Del resto se tanti miei allievi sono riusciti bene, sarà anche merito mio».
E la cucina?
«Io ormai non faccio più il cuoco, ma il compositore. Ho letto una frase di Schönberg: “Le idee non possono mai perire, lo stile può anche cadere in disuso”. I miei piatti sono idee, come il mio riso e oro: perché dovrei smettere di farlo?»
Che allievo era? Umile?
«Sono figlio di albergatori, ho assimilato piano piano, guardando i miei e il nostro cuoco. Però io sono sempre stato appassionato di musica, andavo sempre a teatro, all’opera».
Non voleva fare il cuoco?
«No, non ci pensavo proprio. Ho iniziato a studiare pianoforte, ma dopo tre anni la mia insegnante, che poi sarebbe diventata mia moglie Antonietta, mi ha detto: sei distratto. Volevo dedicarmi anima e corpo alla cucina».
E che cosa ha fatto?
«Ho letto libri, italiani e francesi soprattutto. Poi, quando i miei hanno deciso di ritirarsi, io non ho proseguito e sono andato in Francia. Anche se avevo già quarant’anni e due figlie».
Chi glielo ha fatto fare?
«Volevo imparare da quelli bravi. Sono stato a Parigi, a Digione, e da Troisgros a Roanne. Due anni. Quando ho imparato, sono tornato».
E che cosa ha imparato?
«La tecnica. La cottura. Il rapporto tra intensità della fiamma e spessore della padella, le cotture diverse delle carni».
Gli italiani non sanno cuocere?
«Noi siamo il Paese del tutto un po’ stracotto. La costoletta alla milanese deve rimanere rosa, perciò io l’ho ridotta a cubi. Un mio amico dice: “Certo che i francesi non sbagliano la cottura”. La scuola è là. Infatti ci ho sempre mandato anche i miei ragazzi».
I suoi ragazzi oggi sono cuochi famosi. Berton...
«Un grande pignolo, ordinato. Poi della cucina non posso dire: quando lavorava da me faceva i miei piatti».
Oldani...
«Siamo stati in tv insieme, mi ha aiutato a Las Vegas per una consulenza. Daniel Canzian ha lavorato con me per quattro anni al Marchesino e poi mi ha piantato in asso».
Ricordi migliori?
«Paola Budel. È stata responsabile del Principe di Savoia, per anni in mezzo a una banda di uomini. Quando lasciò la mia cucina invitò tutti i colleghi in un locale e li salutò uno per uno. C’era anche mia figlia Paola, che ha lavorato per un po’ come cuoca da me».
Non ha proseguito?
«No, è una violinista. Ha anche dipinto i quadri che vede alle pareti. La figlia maggiore, Simona, è una arpista e lavora alla scuola Suzuki. Anche i loro figli sono tutti musicisti».
Ma come, nessuno ha seguito le sue orme?
«Eh no. Del resto mia moglie è una musicista, viene da una dinastia di donne tutte musiciste. E così hanno fatto le sue figlie, e i loro figli».
Uno dei suoi allievi più famosi è Cracco. Siete amici?
«Sì sì. Alla festa per i miei ottant’anni ho mangiato da lui».
E come ha mangiato?
«Non mi ricordo».
Come non si ricorda?
«Ci sono stato un paio di volte... Ma sì, bene. Ecco, poi c’è Antonio Ghilardi, è bravissimo, molto intelligente: lavora a Bergamo, a Torre Boldone».
Ma chi è il più bravo secondo lei?
«Paolo Lopriore. Ora lavora al Grand Hotel di Como. È straordinario, un vero artista».
Chi altro le piace?
«C’è questa ragazza fantastica che ha lavorato a Kabul, Barbara Porta. Ora si è trasferita in America ma vorrei che lavorasse con me. Il problema è però è un altro».
Quale?
«Vede, oggi ci sono tutte queste cose tecniche di moda, ma ci si arriva senza sapere il perché. Invece il cuoco fa chimica intuitiva, come diceva il grande Ernesto Illy. Io comunque vado per la mia strada e non devo rendere conto a nessuno».
Ce l’ha ancora con le guide?
«Ora tutti discutono, sui blog, su tripadvisor... Forse erano meglio le guide».
Perché le donne chef sono così poche?
«Ora ce ne sono tante, soprattutto in pasticceria, però è vero, gli uomini sono di più. Eppure la cucina parte dalle donne, in casa».
Che tipo è a tavola?
«Uno goloso, come a letto. Me l’hanno insegnato da ragazzo, a osservare una donna come mangia, per capire che tipo sia».
E le basta anche guardare un piatto per capire se sia buono?
«Certo. Posso dire che è perfetto, anche che è salato giusto, senza nemmeno assaggiarlo».
Dove va a mangiare?
«Fuori non volentieri, non ho tempo. Qualche volta da Lopriore. E poi vicino a Colorno c’è questo ristorante, I due platani: ho mangiato i tortelli di zucca migliori della mia vita».
A casa chi cucina?
«Prima cucinava mia moglie: cose semplici, casalinghe. Una volta abbiamo fatto una gara sulla trippa».
Chi ha vinto?
«Antonietta. L’aveva fatta col cuore. Ora però è malata e non cucina più».
Che cos’ha sua moglie?
«Ha problemi di memoria. Sa, sua madre e sua zia hanno trascorso gli ultimi anni alla Casa Giuseppe Verdi, la casa di riposo dei musicisti. Io però non me la sono sentita. Anche se ho un sogno nel cassetto».
Quale?
«Creare una casa di riposo per cuochi, a Colorno: vicino alla reggia ci sono una cappella e un vecchio manicomio abbandonati che si potrebbero utilizzare. Così i vecchi cuochi si farebbero compagnia, come i musicisti».
Per lei c’è sempre la musica di mezzo. Perché?
«Perché io compongo: dò il modello».
E che compositore sarebbe?
«Mi sento molto Bach. Poi nei miei piatti c’è tanta ispirazione giapponese, e dal mondo dell’arte. Pistoletto, Burri, Pollock. Io non scrivo la ricetta, faccio il racconto di come è nato un piatto».
Il suo piatto preferito?
«L’insalata di spaghetti al caviale. Spaghetto freddo, con l’erba cipollina sopra. Lo mangeresti tutti i giorni».
Il più riuscito?
«Il riso e oro. È il più bello».
Uno che avrebbe voluto fare?
«Non c’è».
Ha mai sbagliato un piatto?
«Mai. Perché prima lo penso, e quando è a posto lo faccio».
I clienti peggiori?
«Gli ignoranti. Dice Toulouse Lautrec che la cucina non è destinata agli incivili, ai rozzi e ai filistei».
C’è qualcuno che le somiglia?
«Credo di essere unico. Perché ho una preparazione di vita e culturale anomala».
Si aspettava che gli chef diventassero delle celebrità?
«No davvero. Il primo è stato Bocuse, bravissimo a crearsi questa immagine».
Guarda i talent di cucina in tv?
«No, non ho tempo. Ho partecipato a un finale con Cracco perché me l’ha chiesto. Comunque mi è capitato di vedere qualcosa: un piatto vergognoso, e tutti a dire “che buono che buono”. Impossibile per me».
Quindi i colleghi che partecipano fanno male?
«Fanno male perché illudono che la cucina sia quella. Ma la cucina è una scienza».
E quando un cuoco è bravo?
«Deve essere intelligente. E poi servono la ricerca, l’applicazione, la conoscenza della materia. Io per vent’anni sono andato al mercato tutti i giorni, quando lavoravo al ristorante dei miei qui a Milano, “Al mercato”».
Funzionava bene?
«Benissimo. Sono passati tutti: Visconti, Monicelli, Caracciolo. Mi lasciavano sempre delle dediche. E poi Fontana. Una mia amica mi fece uno scherzo, mi disse che il segno sulla tovaglia l’aveva lasciato lui. Così lo incorniciai».
E poi?
«Poi glielo portai a vedere e lui disse: “Ma questo non è mio”. Così me ne fece uno. Ce l’ho appeso in casa».
Chi altro ha visto ai suoi tavoli?
«In Bonvesin de la Riva venivano in molti, tanti artisti milanesi. Un giorno arriva Agnelli e mi dice: “Ho comprato un palazzo a Parigi, dentro c’è già un ristorante tre stelle. Ci vuole andare?”».
Ci è andato?
«Ho detto di no. Ci voleva del coraggio, e io non l’ho avuto. Ma sono contento di essere rimasto nel mio Paese».
Di che cosa è più orgoglioso?
«Del successo delle mie figlie e dei miei nipoti, tutti musicisti, uno più bravo dell’altro».
E il suo successo?
«Non l’ho cercato, ho fatto quello che mi piaceva fare. E questo si paga: se ti adatti, guadagni. Ma certe cose non fanno per me».
Quali cose?
«Il catering, cose così. Con quelle fai i soldi».
Lei non li ha fatti?
«Ho sempre reinvestito tutto. Sono un artigiano, un artista».
Ma è sempre così serio?
«Mia figlia dice che non sono serio, perché corro dietro alle gonnelle... Però sì, ho fatto una bella vita, un po’ intellettuale».
Ha sempre dato tutto?
«Non mi sono mai risparmiato. Ho dato quello che sapevo, e ancora ne ho da dare. Ogni anno Bocuse mi manda gli auguri e sul biglietto c’è una sua foto con la scritta: il bello deve ancora venire».