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 2014  novembre 17 Lunedì calendario

Da Garlasco a Brembate di sopra, il Dna finisce sul banco degli imputati. È una prova sufficiente? È davvero infallibile come sostengono gli esperti? Un’inchiesta di Repubblica svela, passo per passo, come si fa il test e come una traccia di saliva inchioda un killer

Un delitto. Il presunto colpevole ha lasciato alcune macchie di sangue, per la precisione quattro. Su superfici diverse. E, tra i sospettati, a sorpresa, spunta il cronista. Non è l’inizio di un incubo, ma di una simulazione. Il cronista viene convocato nel laboratorio dell’università di Trieste. Lo aspetta Paolo Fattorini, biochimico che si occupa di genetica forense. Quello che non vedono i pubblici ministeri, non vedono gli avvocati, non vedono gli imputati, vedrà il reporter. In due giorni di laboratorio e provette, senza segreti, e senza censure.Un’esperienza unica, intorno a una materia complessa, che divide. E un’avvertenza preliminare s’impone. Dall’inchiesta su Yara Gambirasio rapita e trovata uccisa a Brembate di Sopra, a quella sul delitto avvenuto nella villetta di Chiara Poggi a Garlasco. Dalla tragica epopea giudiziaria di Simonetta Cesaroni, ammazzata nel suo ufficio di via Poma a Roma, al batti e ribatti processuale sulla coppia dei presunti assassini-studenti Amanda Knox-Raffaele Sollecito, succede questo: le indagini sul Dna si ritrovano sempre più spesso nella bufera. Nelle aule dei tribunali, la massima prova scientifica di anno in anno sembra diventare, anche a seconda di visioni e strumentalizzazioni, il più fragile degli indizi. Ma è davvero così fragile?
IL LABORATORIO
«È meglio dimenticare i telefilm di Csi», si sente ripetere ovunque. Infatti, per le analisi semplici, come quelle sulle macchie di sangue e la saliva, in questo laboratorio basta una sicurezza «livello zero». Vale a dire, guanti e mascherine. Ovviamente da «fuori» non entra nulla: non reagenti, non strumenti. «Le “cose” possono solo uscire e non entrare», dice il professor Fattorini.Per ottenere i risultati di tre analisi (una su saliva, due su sangue), «faremo» (il cronista è dotato di varie mascherine per avvicinarsi agli strumenti) sette analisi, perché in laboratorio si testano sempre «i bianchi», e cioè i reagenti. Se il singolo reagente non risulterà «bianco», cioè neutro, è obbligatorio rifare tutto: quello che si teme come la peste, la «contaminazione», è in agguato. «Siete sicuri che non c’è stata contaminazione nella custodia dei reperti?» è un classico degli avvocati. In questo caso, dichiariamolo subito, i «bianchi» saranno perfetti: nessuna contaminazione.
IL SOSPETTATO
«Può passarsi il tampone sulla lingua e poi metterlo in questa provetta?», viene domandato al cronista. Il quale sa di essere innocente, eppure, di fronte all’autorità che mescola scienza e diritto, non può impedirsi una ruga d’istintiva preoccupazione. E adesso?La provetta con la saliva viene diluita e poi messa in una centrifuga per due minuti. Con la sorpresa di ogni ignorante, in fondo alla provetta compare un residuo biancastro: «Sono le sue cellule, più qualche microbo. La saliva è ottima per il Dna, perché è formata soltanto da cellule con il nucleo. Nel sangue, il nucleo ce l’ha una cellula su settecento». Che sia sangue, saliva o lacrime, come si passa da «qui» alla lettura del Dna?Succede attraverso varie fasi, si spaccano le proteine delle cellule e il Dna viene «purificato». Inutile raccontare per filo e per segno di enzimi, detergenti, «proteinasi k», fenoli eccetera. Basti sapere che quando le proteine vengono «digerite» (termine tecnico), finisce la prima fase dell’analisi-saliva del cronista sospettato.
IL SANGUE DELL’ASSASSINO
L’assassino? L’«Ignoto X» ha lasciato quattro macchie di sangue. Due su vetro, vicinissime, «praticamente contigue», dice il prof. Due su un fazzoletto di carta. Mentre la gran parte del materiale viene conservata per eventuali test ulteriori, soltanto due «pezzettini» di macchia (uno dal vetro e uno del fazzolettino) verranno analizzate. Un tampone passa su un angolino del vetro. Un paio di forbici tagliano un triangolino di tessuto. Tampone e tessuto vengono messi in due provette: diluiti, e poi centrifugati, con una piccola parte che viene prelevata da un micropuntale per il test della benzidina. «Se è sangue, si colorerà di blu subito, anche se è un test aspecifico, perché identifica solo gli ioni di ferro, presenti nell’emoglobina. Può essere – dice il prof – anche sangue di pesce». Una goccina di reagente, ecco un blu intenso, siderale. È sangue. Sangue umano, dirà poi il microscopio. Ci siamo.
LA DOSE MINIMA
Per comprendere quanto l’analisi del Dna sia diventata invasiva, potentissima, e persino preoccupante, serve un tocco di fantasia algebrica. Innanzitutto, il Dna di una cellula umana pesa 4,4 picogrammi, unità di misura sconosciuta ai più. Conviene dunque partire dal milligrammo, che è – ricordiamolo – un quasi-niente, un millesimo di grammo. Segue il microgrammo: un milionesimo di grammo. Esiste una misura ancora più piccola: il nanogrammo, e cioè un miliardesimo di grammo. A noi sembra impossibile, eppure quel miliardesimo di grammo è a sua volta composto da mille picogrammi. Quindi, in un semplice miliardesimo di grammo c’è il Dna di circa 230 cellule e questo basta per un primo, ma spesso definitivo, esame.In altri termini, basta una macchia di sangue più piccola di una capocchia di spillo per fare non uno (come si dice), ma centinaia e centinaia d’esami del Dna. Le provette con «il grosso» del materiale genetico sono infatti già in freezer, nel laboratorio si lavorerà su quantità che definire minime è troppo. Ma così è: gli strumenti, lo appuriamo con i nostri occhi, «leggono» tutto.
IL GENIO DEI GENI
Abbiamo passato una notte e una mattina tra gel d’agarosio (estratto di un’alga), spettrofotometri, chelex. Anche aggeggi antichi, ai quali il prof è però affezionato. E apparecchi modernissimi. Il tutto ci sta portando a compiere un’operazione che nei tribunali non compare, ma è fondamentale: si chiama l’«amplificazione» del Dna.Per dirla in termini atecnici, si possono fare in laboratorio centinaia e centinaia di «fotocopie» del «libro» del Dna. Ma non di tutto il libro, che non c’interessa (non più).Bensì di alcune pagine, ben selezionate, di quella minima parte di Dna che abbiamo preso. E se pure quest’esperimento dovesse fallire, possiamo ritentarlo grazie al materiale messo sotto chiave in frigo e grazie al premio Nobel Kary Mullis.Surfista, pratico di droghe, uno capace di raccontare il suo rapimento da parte degli alieni, Mullis ha scoperto nel 1983 la Pcr, Polymerase Chain Reaction. Cioè, Mullis è stato il primo a ricreare in laboratorio una reazione che produce Dna. Biologi molecolari di tutto il mondo adesso fanno quello che Mullis ha osato fare per primo. Ma quale Dna è importante nei tribunali quando si parla d’identificazione?
IL CODIS
Da quando, negli anni ‘50 del secolo scorso, è stata scoperta la doppia elica del Dna, gli scienziati ne hanno studiato e ne studiano ancora ogni singola «porzione». Oggi sappiamo che il Dna «codificante», quello che codifica le proteine che ci danno le caratteristiche che abbiamo – sesso, occhi azzurri, altezza, predisposizione ad alcune malattie... – è meno del cinque per cento. Il restante 95 per cento non «codifica». Ha una funzione strutturale, presenta caratteristiche ripetitive e diversissime da individuo a individuo. È «qui dentro» che gli scienziati hanno individuato quali sono le pagine giuste da fotocopiare, le sequenze da leggere per «trovare» una persona.È attraverso i decenni in laboratorio che si è arrivati al Codis, il Combined Dna Index System: sedici «pezzettini» di Dna, così facili da leggere e così diversi nel mondo da permettere l’identificazione scientificamente certa.Sono dunque questi «pezzettini» infinitesimali, chiamati marcatori, che nel laboratorio dell’ospedale Cattinara di Trieste stanno per essere fotocopiati davanti a noi. Lo fa la genetista Solange Sorçaburu Ciglieri, che, secondo un procedimento che aumenta e diminuisce le temperature del Dna, e che innesca enzimi speciali, riesce ad attribuire un colore diverso ai vari gruppi di marcatori.Il campione ottenuto adesso può essere messo all’interno di un «sequenziatore» (una macchina che legge attraverso un laser) ed analizzato da uno speciale software del computer: anche un semi-profano, alla fine, potrà leggere i risultati e fare i confronti tra i vari Dna.
IL CAOS IN CORTE D’ASSISE
Ma allora, perché in tribunale succede che il Dna una volta porta a dire che è stato Tizio e la volta dopo ad affermare il contrario? «Abbiamo due problemi seri, al momento, come ci siamo detti nell’ultimo incontro dei genetisti forensi a Iseo, lo scorso ottobre. Uno è che siamo l’unico Paese in Europa a non avere ancora la banca dati del Dna, ma questo riguarda più che altro la polizia. L’altro è che manca la condivisione delle “linee guida” per districarci nei casi più problematici. Nei campioni che stiamo analizzando in queste ore, il Dna era in ottime condizioni. Ma quando ci s’imbatte nelle “macchioline che non vedi a occhio nudo” – quelle che chiamiamo Lcn: Low Copy Number, basso numero di copie – ogni genetista fa come ritiene lui sia “più” scientifico. E la scienza è fatta per essere confutata», dice il professor Fattorini. Il cronista sa che i pubblici ministeri chiedono sempre più spesso ai laboratori consulenze estreme: trovare il Dna sul coltello (Perugia) o sulla porta (Roma) sfiorati dalla mano dell’assassino; estrarre il Dna da corpi malconservati (Elisa Claps, a Potenza, vent’anni sul sottotetto della chiesa); oppure, attraverso tracce miste, separare il Dna della vittima da quello dell’assassino (Yara). Tra i genetisti c’è chi dice che è «accettabile» provarci, e chi non ci sta. È qui, su questi picogrammi, che si vince o si perde il processo, che si va in carcere o si resta liberi.Verrebbe spontaneo obiettare «meglio essere certi al cento per cento» che innescare le «battaglie del picogramma». Verrebbe facile stabilire: fermatevi entro un limite che non generi controversie in una materia così delicata, così paurosa. Ma mentre si attendono i risultati – il sequenziatore ci mette circa mezz’ora a lettura del campione, e sono sette (ricapitoliamo: saliva del cronista, due di sangue del presunto assassino, tre «bianchi» ed un controllo positivo che ci dirà se il test ha funzionato a dovere) – ci alleniamo a leggere i risultati dei test sfogliando qualche caso risolto nel laboratorio triestino. Uno riguarda una bambina di sei anni. È stata aggredita in un bagno pubblico. C’è la fotografia delle mutandine. Un caso reale di Lcn, basso numero di copie. Che cosa fare?Ogni certezza di fronte a quelle immagini neutre, eppure struggenti, si sgretola. Qui ci hanno provato, a identificare il maniaco. Su sedici marcatori, faticando in laboratorio, ne hanno trovati cinque. Pochi, ma non pochissimi: messi accanto ad altri indizi, sono stati più che sufficienti per arrivare alla condanna del «sex offender».
COLPEVOLE O INNOCENTE
Il sequenziatore ha appena finito di lavorare (siamo entrati mercoledì sera in laboratorio, è venerdì ed è quasi ora di pranzo). Vengono stampati alcuni fogli A4 e si vedono picchi blu, gialli, neri e rossi. Quelli del presunto assassino occupano alcuni spazi, quelli del cronista altri spazi del tracciato di analisi. Diversissimi: basta scorrere i primi, senza verificarli tutti, per escluderci dalla rosa dei sospetti. Bene. Ma chi è dunque l’autore del crimine?In assenza della banca dati nazionale, lo cerchiamo nell’archivio elettronico del laboratorio. Confrontiamo i loci TH01, TPox, CSF1PO, D13S317... sino al D2S1338 tra quelli del sangue di «Ignoto X» e quelli di un uomo già inserito nella banca dati ospedaliera. Coincidono tutti e sedici: è lui. Ed è il professor Fattorini: la simulazione è finita.
IL LIMITE NELLA POTENZA
Abbiamo visto come una piccolissima quantità di sangue, sperma, muco, saliva, lacrime, pelle dia una certezza che va al di là di ogni ragionevole dubbio: se quel materiale viene trovato sul luogo del delitto, e contiene Dna, quel materiale appartiene a Tizio, oppure a Caio. Non si scappa. Questo lo capisce chiunque. Ma il professore che, con la pipettatrice, ha prelevato di persona le varie quantità minime, con puntali piccolissimi usa e getta, le ha diluite, ha eseguito i vari test secondo un protocollo accettato nella comunità scientifica internazionale, scuote la testa: «É quest’alta sensibilità a cui siamo arrivati – dice – a poter costituire un limite. Forse non per noi genetisti, quanto per i detective, per i pubblici ministeri, per i giudici. Noi possiamo dirgli “qui c’è questo”. Ma se “questo” basta a un processo, e a una condanna, dovrebbero saperlo loro».