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 2014  novembre 14 Venerdì calendario

Il giovane di lungo corso che dei renziani non ha nulla o ha di più. Ritratto di Roberto Speranza, capogruppo Pd a Montecitorio

Ci sono prove evidenti, inconfutabili, per certificare che pure Roberto Speranza, classe ’79 da Potenza, capogruppo democratico a Montecitorio, non è nato bolso, grigio, vecchio. Ma sono prove che non si possono svelare con immediatezza e poi non sono così evidenti e inconfutabili a pensarci, allora va bene rievocare il maestro Pier Luigi Bersani che lo richiamò a Roma (dove ha studiato) per organizzare le campagne elettorali (primarie e politiche) e rassicurò la ditta: “Questo è un giovane di lungo corso”. Talmente lungo che non sembra giovane. Ma Speranza, figlio di un funzionario pubblico socialista, è uno scafato tattico di quella politica fatta di passettini, impercettibili movimenti, compìti ammiccamenti. Ora sta lì a Montecitorio a vidimare le leggi, a far girare una macchina burocratica che spesso s’ingolfa, a rappresentare una minoranza o una corrente di sinistra che fa tantissime riunioni e pochissimi strappi e, guardingo, accarezza il renzismo, si trasforma in un diversamente renziano. Perché dei renziani, Speranza, non ha nulla o ha di più. Dipende. Fu il primo, dei reduci bersaniani a redarguire il morente Enrico Letta a fine gennaio, quand’era lampante che il sindaco fiorentino stesse calando su Palazzo Chigi: “Tocca a Letta apportare le dovute modifiche per adeguare la sua squadra di governo a questa nuova fase”. Non poteva essere esplicito, e dunque se ne guardò, ma voleva far intuire che la “nuova fase” prevedeva l’uscita di Letta, le dimissioni, perché Letta non poteva servire il rimpasto col partito in subbuglio. Il fascino di Renzi l’ha subìto con anticipo, bruciato il mentore Bersani, rispondeva con entusiasmo all’ipotesi Matteo presidente del Consiglio: “Incontra il nostro favore”. Il “nostro” di chi? Perché la squadra di Montecitorio non l’ha mai dominata: fu eletto per una finta acclamazione che si tradusse in 200 sì e 84 no incluse le schede bianche. I renziani non l’hanno mai temuto, anzi fu il lucano Speranza, ex consigliere, assessore al comune di Potenza e poi segretario dem in Basilicata, a incontrare un emissario di Matteo – primarie di due anni fa – nei pressi di piazza di Pietra per tacitare le polemiche su regole e clausole, proprio mentre lievitava lo scontro tra Bersani e Renzi. E la ricompensa, perché la politica a volte contempla la memoria, a Speranza è pervenuta con l’esecutivo renziano: nonostante le ambizioni di Matteo Richetti, viene confermato a Montecitorio senza tutori intorno, se non altro per agevolarne l’opera. A proposito di memoria, Speranza non è uomo da tributi pubblici, però elogiò con fierezza lucana lo “statista” Emilio Colombo, che da senatore a vita presiedeva l’aula di Palazzo Madama. E come la migliore sinistra dispersa in se stessa, un giorno disse ch’era sbagliato essere “giustizialisti” contro Silvio Berlusconi, un oppositore vissuto come un “complesso”. Potrà mai Roberto Speranza, che fu giovane senz’altro perché, ecco, fu il presidente dei giovani di sinistra, inveire contro il patto del Nazareno? Non è così avventato. Conosce i tempi del silenzio. Quando fu spedito al Quirinale per le consultazioni con Enrico Letta e Luigi Zanda, avvolto in un vestito di una taglia in più, non pronunciò una parola. Non credeva che la fulminea carriera, fra i conterranei e fratelli Gianni e Marcello Pittella e la geniale intuizione di Bersani, fosse così generosa. A volte le canta a Renzi, è quasi un esercizio di auto-motivazione (come quando litigò con Alessandro Di Battista): “A Montecitorio non siamo dei passacarte”. Non vi spaventate, voleva soltanto dire che la riforma del lavoro può sostenere piccole modifiche. Come? “Costruendo ponti tra le istanze”. Che grinta, Speranza.