il Giornale, 14 novembre 2014
La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne? «Un libro dove l’unico che ha le palle è la protagonista». Francis Scott Fitzgerald? «Un poeta minore». L’urlo e il furore di William Faulkner? «Una storia narrata da un idiota. Illeggibile». Le stroncature di Philip Roth. Per finta
Moby Dick di Herman Melville? «Cinquecento pagine di grasso di balena, cento pagine sul pazzo Achab e una ventina su come sono bravi i negri con l’arpione». Hucleberry Finn di Mark Twain? «Un libro su un ragazzo e uno schiavo che cercano di scappare di casa. Sugli ubriaconi e sui ladri e sui matti che incontrano. Una storia di avventura per ragazzi. Un libro di un tale che sta pensando come sarebbe bello essere ancora giovani. A quando i matti e gli alcolizzati erano sempre gli altri e non tu. Roba per piccoli». La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne? «Un libro dove l’unico che ha le palle è la protagonista». Francis Scott Fitzgerald? «Un poeta minore». L’urlo e il furore di William Faulkner? «Una storia narrata da un idiota. Illeggibile». Gli ambasciatori di Henry James? «Merda policroma. Cinquecento parole dove ne bastava una». Non è l’ultima provocazione di un critico in cerca di visibilità, ma Philip Roth che torna a colpire. Considerato il più importante scrittore americano contemporaneo – autore di romanzi straordinari come Il teatro di aSabbath, Lamento di Portnoy, Complotto contro l’America – vincitore del Premio Pulitzer, di due National Book Award e del National Book Critic Award e tre volte del PEN/Faulkner Award (i più importanti premi letterari statunitensi), ogni anno primo tra i papabili vincitori del Premio Nobel e unico contemporaneo vivente ad essere stato inserito con tutta la propria opera nella Library of America (che raccoglie solo i grandi classici americani) da tempo si è ritirato dalla scrittura dedicandosi soltanto alla propria biografia (con Black Baley).
Merito a Einaudi che sta ripubblicando i suoi libri ormai da tempo fuori catalogo: come con questo Il grande romanzo americano, scritto nel 1972 e per la prima volta apparso in Italia nel 1982 da Editori riuniti, un libro che già dal titolo descrive al meglio le ambizioni del Philip Roth di oltre 40 anni fa. Un invito a discutere su quale sia il «Grande Romanzo americano», questione su cui si dibatte da anni, filtrato da un’ironia feroce e polemica verso i maggiori autori statunitensi. Non le manda a dire Roth, in un immaginario dialogo tra il protagonista, un novantenne ex cronista di baseball e un immaginario Hemingway durante una battuta di pesca. Giudizi netti, taglienti, sin dalla prima pagina che inizia con «Chiamatemi Smitty», richiamo al celeberrimo incipit del Melville di Moby Dick e del suo «Chiamatemi Ishmael». La trama è semplice e al tempo stesso complessa: un complotto comunista e uno «scandalo capitalista» nel 1946 in America hanno deciso di eliminare la Patriot League (le Lega di baseball degli Stati Uniti). Il tutto raccontato attraverso lo sguardo dell’ex cronista sportivo novantenne che narra la storia di una squadra di baseball di senza tetto, animata dall’unico giocatore che «abbia mai provato a uccidere l’arbitro», l’ex carcerato John Ball «il Babe Ruth della galera», un battitore sempre ubriaco e il primo giocatore nano del campionato. Scrive Roth: «Scrivo di ciò che nessuno in questo Paese ha più nemmeno il coraggio di menzionare. Parlo di un capitolo del nostro passato che è stato cancellato dai libri di testo senza un oh di protesta, tranne che da parte mia. Parlo di una riscrittura della nostra storia non meno odiosa di quelle ordinate da un tirannico dittatore straniero. E non di una storia risalente a mille anni fa, ma di qualcosa che ha visto arrivare la sua fine una ventina di anni fa. Sí, parlo della distruzione della Patriot League. Che non ha semplicemente chiuso bottega, ma è stata deliberatamente cancellata dalla memoria nazionale».
Roth ci racconta un periodo storico, tra gli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione del 1929 sino al maccartismo con il suo clima da «caccia alle streghe». Il baseball diventa così lo specchio ideologico di quel periodo diventando spesso una parodia tragicomica del “sogno americano”. Non a caso Roth ha sempre dichiarato di non essersi mai divertito così tanto a scrivere un romanzo. Divertimento che, tranne per alcuni passaggi geniali, non riesce ad essere pienamente compreso dal lettore italiano che non abbia confidenza con il baseball. Anche perché sono tantissimi i tecnicismi sportivi e anche maggiori le allitterazioni che suonano in inglese, ma che in italiano non rendono. Malgrado il grande lavoro di Vincenzo Mantovani (tra i migliori traduttori) questo Roth è troppo lontano dalla conoscenza italiana, dello sport ma anche dei meandri della più recente storia americana, per essere gustato come un romanzo del Roth più maturo. Basti leggere solo la quarta di copertina dove campeggia un estratto della recensione del New Repubblic: «Roth reinventa il baseball, trasformandolo in puro slapstick». Slapstick? Peccato perché se Roth scrive che «neanche Il Grande Romanzo Americano si potrà scrivere senza soffrire», dall’altra parte la sofferenza non sempre deve essere richiesta al lettore.