Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2014
Al vertice del G20 che inizia domani a Brisbane, l’Europa riesce nell’impresa non facile di essere per l’economia mondiale al tempo stesso problematica e irrilevante
Nel periodo di relativa calma dell’eurozona nell’ultimo anno e mezzo, ai rappresentanti europei negli incontri internazionali piaceva ripetere: «Questa volta il problema non siamo noi». Al vertice del G-20 che inizia domani a Brisbane, l’Europa riesce nell’impresa non facile di essere per l’economia mondiale al tempo stesso problematica e irrilevante.
Non c’è dubbio che, guardando al quadro macroeconomico globale, il vero punto oscuro, e quindi la fonte di maggior preoccupazione per i leader del G-20, sia l’Eurozona. Alla vigilia degli incontri, il segretario al Tesoro americano, Jacob Lew, ha sollevato il rischio di un «decennio perduto» per il vecchio continente in termini di crescita. Un’immagine forte, che evoca il Giappone, altro anello debole, che però negli ultimi tempi ha mostrato di voler reagire vigorosamente, anche se non è chiaro con quanta efficacia. L’Fmi, nella sua nota preparatoria dei lavori, ha rilevato che la ripresa dell’area euro sarà più lenta del previsto e chiede per l’ennesima volta alla Bce, se necessario, un’azione di stimolo, anche con l’acquisto di titoli di Stato. Nell’intervista che pubblichiamo a pagina 3, il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, sostiene che c’è il pericolo che la stagnazione europea pesi sulla crescita del resto del mondo, il vero problema per i partner del G-20, e sollecita riforme strutturali. Nelle discussioni preliminari fra gli sherpa, anche il solo inserimento della parola «domanda» nel comunicato finale, ha incontrato obiezioni da parte della Germania e nella discussione macroeconomica gli altri europei si sono schierati più spesso con gli Stati Uniti che con il proprio partner continentale. Una situazione, quindi, fra le più difficili e una risposta di politica economica giudicata dagli altri insufficiente.
I giorni precedenti al vertice sono stati però anche costellati da una serie di accordi che hanno sistematicamente, anche se per ragioni decisamente diverse, tagliato fuori dal gioco l’Europa, mostrandone, in un numero crescente di campi vitali anche per gli interessi europei, la progressiva perdita di rilevanza. Costretta dalle sanzioni a cercarsi mercati alternativi all’Europa per il proprio gas, la Russia di Putin si è rivolta alla Cina. La stessa Cina ha firmato con gli Stati Uniti di Obama due accordi a loro modo storici, sui cambiamenti climatici e sulla fornitura di tecnologie. E, in una sorta di catena, l’America di Obama ha trovato, dopo anni di dissensi, un’intesa con l’India di Modi, che ha il potenziale di sbloccare il negoziato di Bali per la liberalizzazione del commercio internazionale. Tutto questo mentre al vertice Apec di Pechino l’atmosfera su un patto commerciale attraverso il Pacifico è migliorata e mentre il clima del patto analogo fra le due sponde dell’Atlantico resta tempestoso. Tutte questioni di lunga data, alle quale gli altri hanno iniziato a dare una risposta senza l’Europa.
Non sarà facile imbarcarsi sul lungo volo di rientro da Brisbane dicendoci che il problema non siamo noi.