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 2014  novembre 14 Venerdì calendario

Nel ghetto di Tor Sapienza, dove la rabbia e il degrado si trasformano in razzismo: «Basta con i neri, sono tutti bestiacce». Stride l’assenza del sindaco Marino, che nei comizi parlava di «città dell’accoglienza»

Eppure Ambra, la ragazza bionda che subì il tentativo di stupro, anche a me dice: «Non erano neri, non erano musulmani». Ha raccontato alla polizia di tre rumeni, e invece sono i neri e i musulmani che ora stanno cacciando. E non è il primo pogrom della Repubblica italiana contro gli immigrati solo perché manca il sangue.
Di sicuro c’è stata la rivolta ed è in stadio avanzato l’espulsione del capro espiatorio: erano 81 e ne sono rimasti 35. Difatti ben più della metà, 46 egiziani, tutti minorenni, ieri mattina sono stati portati altrove: «Per proteggerli ovviamente» dice, con enfasi eccessiva e artefatta, il dottor Fabozzi, che gestisce l’ordine pubblico in ben cinque periferie con l’aria dello sceriffo buono e «Dio sa quanta umiltà e quanto rispetto ci mettiamo». Ma lui, il ministro Alfano, il questore e pure il Comune sanno bene di averli trattati come delinquenti. Perciò, forse per risarcirli, il poliziotto scuote la testa quando una signora, mimando lo scorrere della cerniera dei calzoni, dice: «Ogni volta che vedono una donna, quei porci, specie i più giovani, tirano fuori il … trallallà».
La signora racconta adesso il tentativo di stupro, ma senza parlare dei rumeni. Comincia dal buio «che dobbiamo ai bastardi della società elettrica». Poi cambia soggetto e mi invita ad andare con lei «a contare i preservativi nel parco». Passa il filo del racconto ad un’amica e a poco a poco il mondo diventa un capogiro collettivo di donne e ancora donne: «La farebbe passare sua figlia in mezzo alle prostitute della Prenestina?», «e sa quanti sono i transessuali nell’antico Mattatoio?» e «dovrebbe vedere la sera le Mercedes che vengo a prendere le loro donne per portarle a battere». Arriviamo così ai «fuochi neri che ogni notte si alzano dai due campi Rom, dicasi due». Quindi torniamo al tentativo di stupro, ma sempre senza quel dettaglio di verità sui violenti che erano rumeni. Si capisce bene che le spinge e le unisce non il razzismo, ma l’orgoglio di appartenere alla periferia oltraggiata, e che il racconto è modellato sulle ragioni superiori della Comunità, discusse e approvate al bar Lory. E forse è ancora l’amore per questi luoghi, che solo per pigrizia e conformismo raccontiamo come deserto di affetti, che Ambra ora si nega ai giornalisti. «Mio marito non vuole» dice, ed è protetta dalle amiche che la circondano a cordone.
Sarebbe stata un bella lezione per il sindaco Marino. Qui infatti non è difficile capire come si diventa razzisti e come nasca l’intolleranza dalla povertà, dalla tracimazione rancorosa della solidarietà (generosità?) di ghetto: «Noi viviamo in tre con le 500 euro della pensione del nonno. Sa quanto guadagnano quelli della cooperativa “Un sorriso” che gestiscono gli immigrati? Trentacinque euro al giorno per ogni immigrato. E dove finiscono i soldi? Sa quanti sono “i bravi ragazzi” che ci mangiano? Quaranta. Si ricorda quanti erano quelli di Ali Babà?». E mi mostra il suo vecchio Nokia tenuto insieme con lo scotch: «Quelli hanno iPhone e iPad».
Tra i ragazzi di Ali Babà incontro Gabriella che ha stampata sul viso l’idea forte e generosa che bisogna arredare le fauci dell’arretratezza con il sorriso e la bontà d’animo; un altro di Ali Babà somiglia invece al quartiere che combatte, ha dentro la stessa violenza ma di segno opposto: «Ci chiamano scimmie». Anche a te che sei romano? «Soprattutto a me». Una signora con la tuta e la Kefiah attorno al collo li copre di insulti, li accusa di tenere chiusi i ragazzi immigrati, di punirli «e mentre quelli si menano tra loro, voi venite qui a farci la lezioncina». Adesso i codici saltano davvero e viale Morandi diventa un pandemonio di sudori, di odori, di tensione. Né il sindaco Marino né il suo assessore alle periferie se la sono sentita di venire qui in periferia a scoprire insieme a noi come un’anonima e brutta strada possa diventare un teatro di eversione, e con quanta facilità le belle facce delle borgatare, con la testa incassata nelle spalle, si deturpino nell’odio. «Bestiacce, sono bestiacce» si è messa a urlare quella Mamma Roma con la Kefiah che l’odio ha trasformato in megera.
La barbarie è scenica perché stasera la trasmissione Matrix trasformerà in piazza universale della violenza il razzismo scombiccherato di un mondo che è ancora piccolo piccolo, più “Accattone” di Pasolini che fu girato qui accanto al Quarticciolo, che racaille, feccia e sguardi assassini di banlieusards. Ci sono le telecamere ad ogni angolo del borghetto Tor sapienza che solo ai margini, lungo viale Morandi appunto, diventa ghetto suburbano e umanità confinata, quando non ci sono più le piazze, i mercati, le strade, le fontane e le case anni venti di mattoni rossi, ma cominciano i palazzoni grigi di edilizia popolare degli anni sessanta, il cemento scrostato che mostra il ferro, l’acqua che cola in strada da chissà dove, qualche vetro rotto. Forse meriterebbero “il rammendo” di Renzo Piano queste cinquemila famiglie romane che hanno preso d’assedio gli 81 immigrati con diritto d’asilo. E i cinquanta poliziotti che li hanno chiusi dentro, prima di iniziare l’esodo?
Solo i cassonetti arredano viale Morandi. Mi racconta Alessandro Rosi, che è assessore nel municipio di quartiere, che «la notte si raccoglie un’umanità di cercatori di immondizia, vagabondi per i quali non esiste la strada del ritorno, i nuovi miserabili che hanno ormai spazzato via la mitologia del povero buono e filosofo, del barbone poeta, sagome di uomini e donne che si dileguano con il loro bottino di niente».
No, davvero non si giustifica l’assenza del sindaco dei diritti, il primo cittadino giacobino che nei comizi elettorali aveva promesso di «trasformare Roma nella città dell’accoglienza». In tutti questi giorni di passione non ha trovato un minuto per venire qui, a Tor Sapienza, e addirittura ieri Ignazio Marino, sempre più sconnesso con la realtà, è volato a Londra per parlare di car sharing, ancora di quelle auto che sono ormai la sua ossessione.
Riprovo a far parlare Ambra che è una bionda di 28 anni con due bellissimi bambini: «Sono mamma e casalinga». I capelli lunghi raccolti dietro, un bel viso con i lineamenti appena marcati, nulla di appariscente, è abbronzata, ha le unghia smaltate nere ma con tanti brillantini, i pantaloni da ginnastica e il giubbetto screziato: «Ero a passeggio con il cane. Ed era buio». L‘hanno aggredita e il pitbull ha reagito. Da quel momento il quartiere si è mobilitato e, senza che nessuno la fomentasse, la rabbia ha acceso il bar Lory, la farmacia, il piccolo supermercato, il negozio di parrucchiere, la rivendita di tabacchi, e gli interni di quegli appartamenti tutti uguali e tutti con le serrande chiuse, dietro alle quali si indovinano mille occhi di arrabbiati con i cinque sensi tesi. Ce l’hanno tutti contro i neri e contro i mussulmani che lo Stato ha ricoverato in quel palazzo a sei piani, 3000 metri quadri gestiti appunto dalla cooperativa “Un sorriso” per conto del ministero e del comune. Li hanno assediati, hanno assaltato il portone di ingresso, hanno lanciato sassi e bottiglie contro la polizia, hanno danneggiato 8 volanti. Hanno dato botte e le hanno prese. E nella foga, durante una carica, è stata picchiata anche Ambra, che dunque si è sentita aggredita due volte. E le ha prese un cameramen della trasmissione Virus.
La sera arrivano pure gli spacciatori, i piccoli boss. Il dottor Fabozzi dice che «hanno il volto coperto coi cappucci, sono veloci, incombono, cercano di organizzare», ma non sono ancora i nomadi metropolitani raccontati dai nuovi teorici dell’estremismo, si chiamano Romolé, Antò, zia Orsa, Mariangela, Francé,… E il marito di Ambra si chiama Toni. «È vero, abbiamo bruciato i cassonetti per farci notare» mi dice un uomo piccolo, rotondo e imperioso mentre dal bar esce Carletto, un ragazzo dall’aria fragile che agita le mani come per strangolare qualcuno, il berretto è girato al contrario, l’aria è da ‘ora ci penso io’: «Li dobbiamo caccia’ tutti ‘sti stronzi che ce dicono che semo razzisti». L’uomo che mi stava parlando dei cassonetti in fiamme si guarda in giro: «Dateglie ‘na botta a Carletto, che se no finisce male».
Da quel sabato, la rabbia di Tor Sapienza ha attirato l’attenzione di tutta l’Italia e ovviamente della politica, l’altra notte la deputata di Sel Celeste Costantino ha dormito dentro la casa assediata con gli immigrati, ieri pomeriggio è arrivata Giorgia Meloni e li ha invitati a non prendersela «con i poveri immigrati ma con Marino che non è venuto, che vi ha abbandonato». Non è ancora banlieue perché Roma non è ancora metropoli ma forse queste sono prove generali di modernità.
Incontro la signora con la Kefiah, adesso siamo soli io e lei, parliamo, mi fa vedere che «il verde è molto curato», è fiera di tagliare l’erba, adesso ha il sorriso timido, le dico che poco prima mi aveva spaventato il suo odio. Ha sempre vissuto qui e ricorda che una volta era un mondo fertile e ordinato, un’isola … «ma le cose vanno troppo male, e quando tutto va male anche la ragione va in malora». Poi mentre mi saluta: «Di lì però se ne devono andare».