Corriere della Sera, 14 novembre 2014
Gli italiani in Libia sono sotto assedio. Vengono rapiti dai banditi: «In questo ultimo anno abbiamo imparato tutti a vivere guardandoci le spalle. Fino a un anno fa ho sperato che si migliorasse. Ora invece me ne andrei. In Italia? Ma no, in Inghilterra. Dall’Italia, mi scrive solo gente che vuole venire in quest’inferno. A lavorare qui! Pensano che una guerra civile sia sempre meglio della nostra crisi»
Lo spinterogeno dell’autobomba è un carbone accartocciato sull’aiuola dell’ambasciata. Alle 7 del mattino, ha fatto una parabola di quaranta metri ed è finito sotto le finestre del console. Vetri rotti, crepe nel muro sopra una targa che commemora la visita del 2012 del ministro Terzi. «Se qualcuno a quell’ora passava di lì – dice uno della sicurezza – moriva di sicuro».
Cinque ore prima ci è passato Marco Vallisa, il piacentino liberato nelle lande berbere mercoledì sera: andava in aeroporto, dopo quattro mesi di negoziato e (dicono i libici) un milione di riscatto. A casa per tornare a sentirsi vivo, dimenticare questa Libia ostaggio d’autobombe e milizie. I banditi l’hanno consegnato ai nuovi padroni della capitale, la fratellanza islamica d’Alba libica, che da tre mesi s’impegna a mostrare ordine e sicurezza. «Grazie di tutto», ha appena fatto in tempo a dire Vallisa: trasferimento in elicottero e via veloci, giusto per evitare nuovi incubi, il brutto risveglio d’una Tripoli che si credeva un po’ meno allo sbando. Fortezza Italia. Le autobombe dell’alba non erano per noi: casomai per le ambasciate vicine, emiratini ed egiziani, finanziatori delle milizie antislamiche. Sono comunque affare nostro: con Malta e l’Ungheria, l’unico Paese europeo che ha deciso di restare qui con uno scortatissimo ambasciatore, Giuseppe Buccino, già consigliere diplomatico di Napolitano; col nostro passato in chiaroscuro, l’unica garanzia presente.
Ai tempi d’oro, nella Libia pre-Gheddafi c’erano 40 mila italiani, una piccola città. In questi tempi cupi del dopo-rivoluzione, ne sono rimasti un centinaio e una settantina d’aziende: le ultime famigliole sfollate ad agosto, con un ponte aereo mentre l’aeroporto veniva bombardato dalle milizie; gli ultimissimi a resistere, qualche ingegnere edile o i tecnici dell’Eni che fronteggiano gli attacchi ai pozzi e fanno ancora lavorare tremila libici.
C’è un altro rapito che non è uscito dalla grotta, il veneto Gianluca Salviato, e ci sono ancora due suoi colleghi della Ravanelli di Venzone che vivono sbarrati a Tobruk, piena Cirenaica, a un centinaio di chilometri dai tagliatori di teste di Derna: hanno abbandonato l’enorme cantiere – «mille ettari di una vecchia base militare, indifendibili» —, si proteggono in una casa con tre metri di muro, qualche guardia in borghese, mai un’uscita, la mancia sotto forma d’affitto pagata a un potente clan locale, la possibilità di tornare in Italia ogni quattro mesi con un complicato volo via Egitto... Aggrappati coi denti al pane che la Libia ci dà.
«In questo ultimo anno abbiamo imparato tutti a vivere guardandoci le spalle», racconta un tecnico rimasto a Tripoli, «la prego niente nomi perché sarebbe come esporre la merce col prezzo» e perché, tutti lo ripetono, il bosniaco e il macedone rapiti con Vallisa sono stati rilasciati subito perché si pensa che gl’italiani paghino: «Io sono stato in Nigeria, ma questo per noi è diventato il posto più complicato. Ci siamo dati regole di buonsenso: mai al ristorante, uscire con macchina anonima e a ore imprevedibili, quando s’è in pubblico parlare sempre in inglese, evitare le città il venerdì e il sabato che sono giorni di manifestazioni... Poi non è detto che queste cose servano: le facevano anche i sequestrati». L’ambasciata manda warning via sms quasi ogni settimana, il suo personale ha l’ordine di non uscire mai.
Una volta, un secolo fa, a Tripoli esisteva un Circolo degli italiani molto ben frequentato. C’era pure un liceo scientifico, il Dante, ambito dai libici. E dopo il quarantennio delle campagne antitaliane di Gheddafi, a un popolo che parla con termini nostrani come «marciapiede» e «semaforo», i signori della rivoluzione promettevano d’inserire l’insegnamento scolastico dell’italiano come terza lingua. Tutto finito. Ora ci sono i barconi di disperati che salpano dalle spiagge di Zuwara, dov’è stato preso Vallisa. O lo strano boom dei negozi italiani aperti sotto l’occhio tollerante delle milizie: molti non vendono niente, spiega una fonte d’intelligence, appartengono a clan di mafia perché il caos libico è ideale per lavare denaro sporco. «In Libia ci vivo da sempre – dice l’ingegner Zakaria Franka – fino a un anno fa ho sperato che si migliorasse. Ora invece me ne andrei. Nella mia famiglia c’è chi ci sta pensando, a chiedere asilo politico».
In Italia? «Ma no, in Inghilterra. Dall’Italia, mi scrive solo gente che vuole venire in quest’inferno. A lavorare qui! Pensano che una guerra civile sia sempre meglio della nostra crisi».