Libero, 14 novembre 2014
A parte Travaglio e il Fatto Quotidiano, agli attentati al pm Nino Di Matteo non crede quasi nessuno, probabilmente neanche il pool «trattativa» che ne trae giovamento mediatico per rilanciare un processo che è appunto mediatico. La versione di Facci
Perché girarci intorno? Agli attentati al pm Nino Di Matteo non crediamo e, per quanto ne sappiamo, non crede nessuno, probabilmente neanche il pool «trattativa» che ne trae giovamento mediatico per rilanciare un processo che è appunto mediatico. Nessuno: tantomeno quelle alte istituzioni che secondo Marco Travaglio dovrebbero passare il tempo a solidarizzare con l’ineffabile Di Matteo, né tantomeno quella parte di pm palermitani che invece il tempo lo passa a combattere la mafia (quella vera) mentre sopporta il pool come un fenomeno folkloristico.
Appare assai più concreto l’incidente capitato ieri all’inviato dell’Espresso Lirio Abbate: l’auto in cui viaggiava a Roma con la scorta (Abbate è sotto protezione da sette anni per comprovate minacce mafiose) è stata speronata da un ventenne poi bloccato e identificato, anche se non sono ancora emersi legami tra il ragazzo e i clan. Si vedrà.
Repubblica, in compenso, l’altro ieri ha rilanciato la milionesima minaccia a Di Matteo, minaccia sempre e regolarmente basata su fonti innominate e però «molto serie», anzi «attendibili», tanto che l’esplosivo «è già a Palermo» (ormai saranno dieci chili per abitante) ma tutto resta evanescente e irreale come l’ultima trasferta annunciata dai pm: in Sudafrica, per interrogare Gianadelio Maletti (che diresse il controspionaggio italiano dal 1971 al 1975) e questo per chiedergli di un eventuale ruolo del generale Mario Mori (allora trentenne) nella strategia della tensione. Non c’è da spenderci una riga, per ora.
L’unica strategia della tensione parrebbe quella costruita dai media più incendiari attorno al pool della trattativa, architetti di congetture che si accatastano una sull’altra anche se non ce n’è una certa, anzi, le più palesi forzature vengono usate per accusare di complicità para-mafiosa chi non le condivide. Ieri l’house organ del pool, il Fatto quotidiano, spiegava che parlare delle «minacce» a Di Matteo da parte di Totò Riina – intercettato in carcere mentre chiacchiera con certo Alberto Lorusso – è roba da pavida stampa corazziera, perché quelle non erano minacce, Riina infatti – ha sentenziato il Fatto – «ha ordinato una strage come a Capaci e in via d’Amelio». E giù con l’ennesima citazione della fatidica intercettazione in cui Riina disse «organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non se ne parli più». Era il 16 novembre 2013 e l’ordine fu comunicato alla mafia attraverso un canale di sicura efficacia: la stampa, che appunto riportò l’intercettazione. La cosa incredibile è che si accusano i giornali di considerare solo come «minaccia» quella che non è neppure una minaccia: appare come il delirio senile di un generale senza più esercito, capo di una mafia che lo Stato ha sconfitto.
A leggere bene i brogliacci delle intercettazioni si comprende un quadro molto diverso rispetto a titoli sparati su stampa e televisione per mesi: ma tanti colleghi – per non sbagliare, o proprio perché non è importante – ancor’oggi fanno finta di niente. Per cominciare sorvolano sul dettaglio che Riina sapeva di essere intercettato, e che in questa veste pronunciò appunto le sue «minacce».
Intercettazione del 13 novembre 2013, Alberto Lorusso: «Stamattina è uscita la notizia vostra... Riina minaccia il pm Di Matteo». Riina: «Sentono le parole di qua? (con la mano sinistra indica verso la telecamera)». Lorusso: «E stanno vedendo se mandare una protezione seria a Di Matteo». Riina: «Ma come minaccio, come minaccio (ride ironicamente), io non sono a 41bis?». Lorusso: «...un pentito dice che è arrivata la polvere da sparo per lui». Riina: «Ah, un pentito... eh, certo... hanno sempre gatte da pettinare, non sono mai tranquilli, mai». Lorusso: «Per mantenere viva la situazione...». Il 14 novembre, cioè il giorno dopo, Riina dice che di Di Matteo gli importa assai poco: «Ma minchia è questo Di Matteo... gli vorrei chiedere: ma chi minchia è, me lo vuoi dire chi minchia è?... fanno propaganda loro, fanno tutte queste cose loro». Riina mostra praticamente di non conoscere Di Matteo, non sa praticamente chi sia. E si compiace che le sue parole di 83enne rinchiuso al 41bis abbiano tanto effetto. Ed ecco che due giorni dopo, il 16 novembre, «minaccia» Di Matteo a mezzo di un dialogo che va riportato. Lorusso: «Ma secondo me questi vogliono mantenere sempre viva la lotta alla mafia, sempre vivo la situazione...». Riina: «Sì, sì...». Lorusso: «Allora ci bombardano di queste notizie, di questi pericoli, di queste cose ci fanno bombardamento». Riina: «E allora organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più». Una canzonatura. Dopodiché Riina esterna più che altro la sua impotenza: «Ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile (incomprensibile) ucciderlo (incomprensibile) una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari...». Poi l’intercettazione è appunto incomprensibile: come se il resto fosse chiaro.
Queste restano le fondamenta per cui la mafia (quale?) avrebbe minacciato Di Matteo per via di un processo che invece non minaccia niente e nessuno.