La Stampa, 14 novembre 2014
A colloquio con Matteo Renzi. La speranza che Napolitano resti fino all’Expo, la telefonata a Prodi, il Jobs Act e le modifiche ma «solo sulle troppe forme di lavoro precario». E sulla botta in testa: «Qualcuno vorrebbe che io ne dessi una a Berlusconi. Ma non vedo il perché: sulla legge elettorale l’accordo c’è». Ma «il punto centrale è che la sinistra italiana diventa democratica all’americana e questo ha un valore storico»
Presidente, c’è troppo rumore, si sente poco, dell’ultima frase ho capito soltanto «botta in testa»... Quattro del pomeriggio, prima l’auto, poi la confusione, infine l’aereo: Matteo Renzi sta partendo per Bucarest. «Sì, ha capito bene – dice -. Botta in testa. È quella che qualcuno voleva – anzi, vorrebbe – che io dessi a Berlusconi, a proposito di legge elettorale e magari non solo. Ma onestamente non ne vedo la ragione, perché ormai l’accordo c’è».
Il Presidente del Consiglio lascia l’Italia (tappa a Bucarest, poi balzo verso l’Australia) ma ha voglia di mettere un po’ di puntini sulle i a proposito di alcune questioni di strettissima attualità. Elenchiamole: legge elettorale, prima di tutto; poi Jobs Act, naturalmente; e infine – ma molto, molto malvolentieri – l’ipotesi di elezioni anticipate e la questione delle questioni ad essa assai legata: la permanenza di Giorgio Napolitano lassù al Quirinale. Nel corso di questi mesi, a dispetto dell’abisso generazionale e perfino di formazione, tra i due presidenti si è creata una corrente di simpatia e di stima che Renzi – oggi – non fa nulla per nascondere.
«Mi lasci dire una frase di rito – comincia – che per me, però, è assolutamente vera: nessuno può permettersi di tirare per la giacca Giorgio Napolitano. E dunque – spiega – spero che non sia inteso così quello che per me resta un grande sogno: e cioè che possa esser lui ad inaugurare il prossimo Expo. Abbiamo fatto di tutto, come governo, per salvarlo e, con la nomina di Cantone, arrestare i fenomeni di corruzione. È un appuntamento importantissimo per l’Italia e Napolitano sarebbe, se mi si passa il termine, il migliore dei testimonial possibili per il nostro Paese di fronte al mondo». L’Expo, però, prende il via il 1° maggio: forse un po’ troppo in là rispetto ai tempi di abbandono che molti attribuiscono al Capo dello Stato. «Io continuo a sperare che il Presidente resti ancora a lungo lì dov’è – dice -. Ma questa è, appunto, una speranza: per il resto, come ha già ribadito, sarà Napolitano a decidere il come e il quando, in assoluta e legittima libertà. Nessuno può aver dubbi che qualunque decisione sarà improntata, come sempre da parte del Presidente, al rispetto delle istituzioni e delle attese del Paese».
L’altro giorno Renzi ha chiamato Romano Prodi: era un po’ che non si sentivano, telefonata cordiale giusto a chiarire qualcosa (ammesso che ci fosse qualcosa da chiarire) intorno alla già avviata gran baruffa sul Quirinale. La questione, per altro, è ineludibilmente legata alle voci che vorrebbero il presidente del Consiglio tentato da elezioni anticipate in primavera. Renzi smentisce, a modo suo, chiacchiere e dicerie. Non smentisce, invece, una mai nascosta e anzi crescente insofferenza verso certi riti e certi andazzi: la minoranza Pd sempre di traverso, gli uomini di Alfano a chiedere altri vertici di maggioranza, i numeri al Senato che sono quel che sono, esposti a dissensi, ripensamenti e trasmigrazioni...
Il premier prende queste questioni di petto e rispolvera la nettezza che ne ha fatto, agli occhi di milioni di cittadini, un politico «diverso». Tanto per cominciare, la minoranza Pd minaccia di non votare il Jobs Act e dintorni. Renzi la mette così: «Orfini e Speranza mi hanno chiesto di dare un segnale distensivo, di disponibilità, e io l’ho dato: in commissione si lavorerà sul cosiddetto disboscamento, cioè sulla riduzione delle troppe forme di lavoro a tempo e precario. A me preme che la legge sia in vigore dal 1° gennaio: motivo per il quale – è bene saperlo – se si giocasse ad allungare i tempi, metteremo la fiducia sul testo che uscirà dalla commissione...».
L’ipotesi che la minoranza possa non votare o addirittura votare contro non sembra preoccuparlo: «Sono sempre gli stessi, una decina, molto divisi, anzi ulteriormente divisi al loro interno... Io vorrei tenere tutti dentro, naturalmente, e se per questo serve non votare in Direzione perchè altrimenti vanno sotto o fare piccole modifiche al Jobs Act, volentieri. Il punto centrale è che la sinistra italiana diventa democratica all’americana, e questo per me ha un valore storico».
E dopo la minoranza Pd, eccolo rispondere agli uomini del Nuovo Centrodestra, che chiedono – appunto sul Jobs Act – un nuovo vertice di maggioranza (dizione che a Renzi, lo ha detto più volte, fa addirittura venire l’orticaria). «Agli esponenti del Nuovo Centrodestra dico che il prossimo vertice di maggioranza si farà nella tarda estate o nell’autunno del 2017... Per loro, del resto, questo non può rappresentare una sorpresa. L’altra sera, quando sono venuti in venti a Palazzo Chigi, gliel’ho detto: ragazzi, non ci prendete gusto, questo è il primo vertice che facciamo in otto mesi, ed è anche il penultimo...».
Non nasconde, naturalmente, che i nodi che vengono al pettine (li ha definiti così l’altra sera di fronte alla Direzione Pd) stanno creando una situazione che Giorgio Squinzi ha definito «di quelle tipiche che portano a votare». È così? «È in gioco un’idea di fondo alla quale io credo molto: e cioè che si vota ogni cinque anni. Detto questo – aggiunge – è faticoso: e certe volte la fatica diventa doppia. È come andare in salita in bicicletta con un rapporto sbagliato, poco agile, duro, dispendioso. Ed è proprio per questo che dobbiamo varare la nuova legge elettorale. Se eleggeremo così il nuovo Parlamento, io o chiunque altro ci sarà, potrà governare con più libertà e responsabilità. Non so se tutti lo hanno inteso, ma siamo alla vigilia di una svolta che cambierà il nostro sistema politico-istituzionale, facendone uno tra i più avanzati in Europa».
È il prodotto del cosiddetto patto del Nazareno, pure contestato da più parti. E si torna, così, alla «botta in testa» a Berlusconi con la quale, tra un’auto e un aereo, era iniziata questa lunga conversazione. «Sul premio che passa dalla coalizione alla lista e sulla soglia d’ingresso al 3% c’è già l’accordo della maggioranza di governo – dice -. Berlusconi resiste su entrambe le questioni e deciderà cosa fare, ma la riforma noi possiamo approvarla lo stesso. È possibile che alla fine Forza Italia decida di votare no all’emendamento che trasferisce il premio dalla coalizione al partito e che si astenga sulla legge, ma sono dettagli. La svolta è a un passo, e vedrete: cambierà il Paese».
L’auto si ferma, si passa all’aereo. Matteo Renzi, ottimista e carico, decolla verso Bucarest, poi Australia, Turkmenistan e martedì di nuovo al lavoro in Italia: un vero tour de force. L’ultimo sms è tutto un programma, rassicurante per chi crede in lui, preoccupante – diremmo – per gli altri: «Io non mi faccio fermare dal pantano». Costi quel che costi non c’è scritto. Magari era solo superfluo...