La Stampa, 14 novembre 2014
All’Apec, l’inarrestabile ascesa della Cina a potenza mondiale passa per il consenso di Obama. Washington sembra riconoscere Pechino come partner privilegiato e la Russia pare giocare un ruolo secondario
Da tempo è diventato un luogo comune ironizzare sulla combinazione fra la spettacolarità formale e la vacuità sostanziale delle grandi conferenze internazionali. Anche il vertice Apec di Pechino non si è certo sottratto ad una spettacolarità degna di un’inaugurazione olimpica. E certo si può anche sorridere quando si vedono i massimi responsabili di Stato e di governo di tanti Paesi sfilare, con risultati estetici non sempre convincenti, negli esotici abbigliamenti tradizionali del Paese ospitante. Ma sarebbe un colossale abbaglio fermarsi alla superficie e non vedere come in questi giorni a Pechino sia avvenuto qualcosa di estremamente significativo.
Il grande protagonista del vertice è stata la Cina, e questo ben al di là delle ovvie prerogative che spettano ai padroni di casa. Lo è stata non tanto perché sotto la sua presidenza il multilateralismo Asia/Pacifico ha fatto un ulteriore passo avanti, ma perché l’incontro ha offerto al Presidente Xi l’occasione di mettere in atto una diplomazia bilaterale (con Stati Uniti, Giappone, Russia e persino il Vietnam) che rivela determinazione, senso politico e nello stesso tempo conferma in modo molto concreto come la Cina intenda portare avanti il suo evidente disegno di affermazione non solo economica sia sul piano regionale sia su quello globale.
Forse è esagerato, o quanto meno prematuro, affermare che a Pechino si è rafforzata l’ipotesi di un «G2» sino-americano. È vero però che la sostanza delle intese fra Washington e Pechino, emerse con l’occasione del vertice, ha confermato che quella che fino a poco tempo fa era l’unica Grande Potenza si sta oggi sempre più orientando a riconoscere la Cina come partner privilegiato, seppure problematico.
Non è azzardato immaginare come tutto ciò sia percepito da un altro dei principali leader mondiali presenti al vertice, Vladimir Putin – quel Putin che era convinto di essere in grado di superare l’America in una «svolta asiatica» (l’obamiano «pivot to Asia») capace di fornire alla Russia un respiro innanzitutto economico, ma anche politico, di fronte alle difficoltà del rapporto con l’Occidente aggravatesi pesantemente a seguito del suo revanscismo aggressivo verso l’Ucraina. Certo, a Pechino sono state confermate le grandi intese russo-cinesi nel campo dell’energia, e non vi è dubbio che sempre più si prospettano pipelines dirette dalla Russia verso l’Est e che si stiano stipulando contratti miliardari di forniture energetiche dalla Russia alla Cina.
Ma a Putin non interessa solo l’economia, e il suo revanscismo è basato sul risentimento per il mancato riconoscimento della Russia come interlocutore importante, da rispettare nelle sue esigenze economiche e di sicurezza. In questo senso la differenza emersa a Pechino fra il rapporto sino-americano e quello russo-americano si è rivelata in tutta la sua evidenza.
Obama, di una palpabile freddezza nel suo breve incontro con Putin, ha invece trascorso varie ore con Xi e ha dimostrato nei suoi interventi di avere un grande rispetto della Cina e di considerarla un interlocutore essenziale, mostrandosi anche molto cauto in relazione alla situazione a Hong Kong. E poi, basta paragonare la Maidan di Kiev con Hong Kong Central, luogo principale delle manifestazioni pro democrazia nell’ex colonia britannica, per rendersi conto della clamorosa differenza nell’atteggiamento americano. A Kiev l’America ha appoggiato esplicitamente la protesta, addirittura con la presenza sulla piazza di suoi non secondari esponenti politici, a Hong Kong si limita ad auspicare genericamente che non si ricorra alla violenza.
Pesantemente critica, e secondo i russi provocatoria, nei confronti dell’Orso russo, Washington è attenta e prudente quando si tratta di trattare con il Drago cinese. Ma prima di lamentarsene Putin, e con lui quella stragrande maggioranza di russi che lo appoggia, farebbero bene a imparare qualcosa dai cinesi: che la potenza di un Paese non si afferma con le provocazioni e i colpi di mano spregiudicati – comportamenti caratteristici di chi compensa con l’arroganza un’insicurezza di fondo – ma costruendo, come fa la Cina, una credibilità basata soprattutto su un vertiginoso ritmo di sviluppo.
Una credibilità che permette poi al leader cinese, come è avvenuto nella conferenza stampa congiunta con Obama che ha concluso il vertice, di tracciare una linea invalicabile fra flessibilità su questioni che riguardano commercio, sicurezza o ambiente e duro rigetto di ogni ingerenza negli affari interni. La cautela di Obama su Hong Kong non è stata certo reciprocata da Xi, che ha invece ammonito senza perifrasi il suo ospite americano che «le questioni che riguardano Hong Kong sono esclusivamente affari interni della Cina, e i Paesi stranieri non devono in alcun modo interferire».
A Pechino, in questi giorni, abbiamo visto in che modo molto probabilmente si snoderà il percorso di quella che sempre più appare come l’inarrestabile ascesa della Cina come potenza mondiale. Certamente sulla base dello straordinario peso economico, e sempre più anche quello militare, ma con pazienza, abilità diplomatica, e soprattutto attenzione ad evitare di innescare timori e controspinte che potrebbero interferire con l’affermazione graduale di quello che la Cina ritiene essere il suo destino di Grande Potenza.