Corriere della Sera, 13 novembre 2014
Pochi soldi, sponsor e doping: benvenuti al mondiale di sollevamento pesi, disciplina antica, la cui nobiltà è certificata da un albero genealogico scritto da personaggi leggendari e imprese che fanno polpette dei limiti della fatica umana
Dategli due braccia e vi solleveranno il mondo, come stanno provando a fare 683 atleti in questa settimana ad Almaty, in Kazakistan, al Mondiale di sollevamento pesi, disciplina antica, la cui nobiltà è certificata da un albero genealogico scritto da personaggi leggendari e imprese che fanno polpette dei limiti della fatica umana. L’Italia in Kazakistan ha presentato 11 atleti in cerca del pass olimpico, ma sono lontani i tempi di Bottino (1920), Tonani, Gabetti e Galimberti (1924), Oberburger (1982), capaci di salire in cima al podio di Olimpia, e per ora ci si deve accontentare del 6° posto di Genny Pagliaro e del 19° di Mirco Scarantino, annunciati tra i protagonisti.
Oggi, senza i soldi delle televisioni (il Mondiale va in onda su Eurosport) e con gli sponsor che fuggono dopo i troppi scandali doping che ne hanno minato la credibilità, lo sport che si guadagnò la presenza ai primi Giochi Olimpici dell’era moderna e che sempre è rimasto nella famiglia olimpica, è affare per pochi, amatissimo in paesi improbabili e sperduti, dove basta uno scantinato di 10 metri quadri, un allenatore stregone e tanta voglia di emergere per confezionare un eroe nazionale. Gli emuli di Atlante arrivano da ogni angolo del pianeta: le coreane, i russi e gli americani per tradizione, le colombiane e i vietnamiti, turchi ed egiziani, iraniani che vivono per imitare Hossein Rezazadeh, il gigante di un quintale e mezzo che all’Olimpiade di Sydney interruppe 40 anni di monopolio sovietico nella categoria dei colossi. Quando, nel 2003, stabilì il primato del mondo, il presidente iraniano Mohamed Khatami gli regalò 60 mila dollari e fece sì che il suo matrimonio fosse trasmesso in diretta dalla tv nazionale.
Un mondo a sé, popolato di gnomi fortissimi e di giganti buoni, che in pedana si trasformano e in 30 secondi bruciano le stesse energie che spende un mezzofondista in pista. Lunedì l’egiziano Mohamed Mahmoud, categoria fino a 69 chili, pur di non darla vinta a quel dannato bilanciere l’ha tirato su e lì sotto è rimasto immobile, le gambe rigide e gli occhi di fuori. Una smorfia, un urlo bestiale e lo sforzo si è concluso con lo schianto a terra di atleta e attrezzo. Poco dopo Mohamed si è alzato e a fatica è salito sul podio per mettersi al collo l’argento mondiale. Cosa si fa per un chilo in più.
Due specialità, lo strappo e lo slancio, e tre tentativi per avvicinarsi all’alzata massima, in tutto un minuto e mezzo che vale una vita. Le medaglie (e i primati) si ottengono sia nelle singole discipline, sia nella somma del totale sollevato. Fino al 1972 esisteva anche una terza variante, la distensione lenta, in cui era imbattibile Vasilij Ivanovic Alekseev, 166 chili di carne diventati a forza di record (8 titoli mondiali, 2 olimpici) «l’uomo più forte del mondo». Mai ha voluto rivelare i suoi metodi di allenamento e mai ha avuto un allenatore, fino a diventare la leggenda (il suo cuore ha ceduto nel 2011, a 69 anni) di uno sport che agli albori faceva esibire i propri eroi sulla pista di un circo di periferia e oggi li ammira su una pedana kazaka nascosta agli occhi del mondo.