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 2014  novembre 13 Giovedì calendario

Romani contro stranieri a Tor Sapienza. Bianchi e neri sono pronti a scannarsi come in una banlieue, come a Soweto, in questa periferia est di Roma. Un mese fa toccò a Corcolle. Tra un mese magari sarà la volta di Ponte Mammolo o della Romanina. La tensione gira come una pallina di roulette, il copione non cambia, quelli che soffiano sul fuoco fanno la fila

Pochi denti in bocca e molta rabbia in testa, lo stigma dell’eroina e della miseria. «Ci sarà una grande pulizia, vedrai!», giurano i vecchi di Tor Sapienza, quelli entrati nelle prime case Ater trent’anni fa – una specie di nobiltà locale –, seduti sul muretto dietro al Lory Bar, che è il quartier generale di questo caos: «I neri protetti dal Vaticano e dai comunisti devono anna’ affa...», sibilano.
Terza sera di paura, dopo botte e bombe carta, cortei e sassaiole: ora però ci sono molti blindati, tanti poliziotti, tute antisommossa. Bianchi e neri sono pronti a scannarsi come in una banlieue, come a Soweto, in questa periferia est di Roma. Il civico 142 di viale Morandi è un falansterio di degrado popolato da 500 famiglie, un circolo di otto piani di cemento con quattro pini piantati in mezzo, romeni abusivi subentrati nei sottoscala a 300 euro al mese, vecchi negozi occupati dai rom. «Non ho più il mio metro quadrato per respirare», ghigna Gino, e giura che negli anni Ottanta «qua era un paradiso, prima che venisse ’sta gente».
Le spedizioni degli incappucciati sono partite da qui, dai giardinetti, strillando «viva il Duce!», agitando mazze, confuse dentro i cortei di protesta degli abitanti. Bilancio: quattordici feriti, tra cui molti poliziotti e un cameraman di Raidue. Davanti alla scala DD (ogni civico ha lettere e sottolettere) c’è ancora qualche macchia di sangue di martedì.
I «nemici» sono dall’altra parte di viale Morandi, al civico 153 e seguenti, in un altro casermone, dipinto fresco di arancione: 430 metri quadrati per sette piani più due di seminterrato. Proprio di fronte, stanno. E dalle finestre guardano spaventati, in realtà non hanno gran voglia di combattere, anche se si preparano a barricare di nuovo l’ingresso contro i tentativi di irruzione. Sono ospiti della onlus «Un sorriso», che impiega una quarantina di operatori al centro d’accoglienza. I ragazzi hanno faccette implumi ma già segnate anche loro. Vengono da dove si combatte sul serio, Libia, Siria, Egitto. In tutto trentasei minorenni, per legge sotto la tutela del sindaco Marino. E trentasei adulti rifugiati. Parlano a fatica: «Sono scappato dalla guerra e ho trovato un’altra guerra», «ho più paura di prima», «meglio che morivo a casa mia».
Uno di loro, un bengalese, dimostrerà dieci anni ma ne ha quattordici, è stato preso a bastonate in testa l’altro giorno al parco. Il parco Barone Rampante è un posto sconsigliabile. I romeni ci si sono accampati e lunedì uno di loro avrebbe infastidito una ragazza romana con la coda di capelli bionda e un pitbull al guinzaglio. Quando si usa troppo la locuzione «uno di loro» significa che le cose si mettono male. Ora tutti dicono «tentato stupro», ma non c’è denuncia. La scintilla è stata quella. Il romeno è stato pestato, ma poche ore dopo è partito il primo assalto alla onlus. Negli scontri, anche la ragazza con la coda bionda ha preso un paio di manganellate.
Qua tutti menano tutti, è la legge di questo inferno che ha venti identiche succursali tutt’attorno alla periferia romana, venti focolai in attesa.
Un mese fa toccò a Corcolle. Tra un mese magari sarà la volta di Ponte Mammolo o della Romanina. La tensione gira come una pallina di roulette, il copione non cambia, quelli che soffiano sul fuoco fanno la fila. Lunedì e martedì la polizia ha individuato tra i picchiatori noti fascisti e ultrà. Ieri, rispondendo all’appello «di solidarietà» diffuso dalla onlus, sono apparsi antagonisti e vecchi militanti di Action. L’incendiario leghista Salvini, che pure ha annunciato la sua venuta, stavolta arriverà buon ultimo. Molto atteso sarebbe Ignazio Marino, che tra le grane della sua Panda Rossa ha trovato il tempo per incontrare in Campidoglio alcuni residenti. Ed è certo ingeneroso prendersela con lui, fresco arrivato. Tuttavia un suo comunicato che promette di «individuare soluzioni condivise», «una presa di distanza dagli episodi di violenza» e una visita «a breve», suona inadeguato se non grottesco.
«Qua è ‘na tragedia», inquadra la situazione Gabriella Errico, presidentessa della cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza, «l’altra sera hanno tirato sedici bombe carta. Ma, vede, noi non ce ne possiamo andare. Come dicono i colleghi delle altre cooperative, poi si sposterebbero alla Prenestina, all’Ardeatina...», come la pallina della roulette appunto. Gli ospiti del centro sono accusati di furti, provocazioni, persino di cambiarsi nudi alla finestra.
Francesca, dirigente della struttura, calabrese, sospira: «La verità? I ragazzini sono quasi ingestibili. Vengono qui direttamente dallo sbarco. Su di loro devi partire da zero... avessimo cinque anni di tempo! Nessuno ruba. Ma qui si aggiunge disagio a disagio». Accanto, due dei più giovani si azzuffano. Gabriella Errico sospira: «Giocano, sono esuberanti. Sa, gli egiziani?».
In questa storia non si vedono ragioni, tutto sembra un torto. Persino le dimensioni del centro «Un sorriso», quasi quattromila metri quadrati per una settantina di rifugiati a 25 mila euro al mese di affitto pagati da Europa, Stato italiano e Comune di Roma. Certi spazi fanno gola in un quartiere dove prima si occupa e poi si dice buongiorno. «Ma questa è la sede della cooperativa sociale, non c’è solo l’accoglienza», spiega ancora Francesca. Di sicuro il centro attira molta polizia e la cosa non può far piacere ai padroncini dello spaccio locale: anche qualcuno di loro era in mezzo ai tafferugli.
Dalla trincea del Lory Bar, Marina dice che «no! Noi non difendiamo gli spacciatori». Ha una faccia patita per i suoi trent’anni, un cappuccio di lana in testa e, attorno, il gruppo dei vecchi tossici. Qui è nata, sua madre c’è venuta nel ‘78. Ammette: «Sì, l’altra sera c’eravamo noi. Ma abbiamo fatto un’ istigazione». Cioè? «Ha presente nel Sessantotto quando c’erano i comunisti? Uguale a loro. Abbiamo fatto un’istigazione per farci vedere! Io nun so’ razzista. Negro non lo dico a nessuno perché è una diffamazione. Ma, scusi, se nel suo quartiere le arriva gente così lei che fa?». Un’istigazione? «No, nooo! Una rivoluzione!».
Sotto la pioggerella della sera, un cinquantenne congolese si accascia sul marciapiede della onlus, un taglio in fronte, chiedendo aiuto. Capannelli, polizia, ambulanza. Forse è caduto? Una vocina da dietro risponde: «Qua nun cade nessuno, qua se mena e basta».