la Repubblica, 13 novembre 2014
Elfriede Jelinek, una scrittrice tra cinema e teatro. Il Premio Nobel per la letteratura si racconta: «Vivo ritirata, ma ciò che scrivo non ha bisogno di me, va dove io non posso andare. I miei testi teatrali sono prosa da leggere e i personaggi mi servono da appendi abito»
Le sue storie, audaci e impudenti, lasciano affascinati ma anche sfiniti, con le osse rotte: la donna che non sopporta più il dominio degli uomini di La voglia, le casalinghe disperate nella orrenda provincia di Le amanti, o La pianista psicopatica del suo romanzo più popolare (grazie al film di Haneke con Isabelle Huppert)... sono ritratti rabbiosi della banalità contemporanea, voragini su paesaggi umani desolati che fanno di Elfriede Jelinek, Nobel nel 2004, una scrittrice conturbante e incendiaria. Dalla metà degli anni Ottanta, poi, Jelinek ha anche una fittissima produzione di teatro dove quel senso di inadeguatezza della vita diventa un flusso sonoro, passione per la parola: da Clara S. a Winterreise dedicata alla storia di Natascha Kampusch (la ragazza segregata per dieci anni). È un’occasione molto bella poter conoscere molti di questi testi teatrali per un progetto unico, “Focus Jelinek”, un mega festival a cura di Elena Di Gioia che fino a marzo in diverse città dell’Emilia Romagna presenta l’opera teatrale quasi al completo della scrittrice.
Lei naturalmente non si farà vedere. Da decenni, ormai, Elfriede Jelinek, 68 anni, conduce una vita claustrale nella sua Austria, per la stessa forma di fobia sociale che hanno tanti suoi personaggi. Di sé lascia circolare le foto – forse sempre la stessa che la ritrae bionda, bella, con la faccia dura e intelligente – e le sue opere, preferibilmente sul suo sito www. elfriedejelinek.com (dove è uscito Neid l’ultimo romanzo). E col mondo comunica solo via mail, come per questa intervista, grazie alla traduttrice Rita Svandrlik. «Mi sono dovuta ritirare a causa di una malattia fobica – spiega subito senza fingere Jelinek – Me la porto dietro da quando ero giovane. È diventata di nuovo acuta qualche anno fa. Non posso più fare vita pubblica, né viaggiare. Con mio marito, che vive a Monaco, conduco una relazione in cui ci si fa visita per alcuni mesi all’anno».
Non sente la mancanza dei contatti umani?
«I miei testi vanno dove io purtroppo non posso andare. Sono più autonomi di me e non hanno bisogno di me. Ne vengono a capo (come dicono i tedeschi) da soli, anche se il capo non è facile da trovare».
Com’è arrivata a scrivere di teatro?
«I primi testi teatrali sono nati dalla sollecitazione del mio editore di allora ed erano costruiti ancora sul dialogo. Si trattava più che altro di dichiarazioni di punti di vista, erano molto narrativi. Ma ho capito presto che i dialoghi, almeno se sono io a scriverli, risultano banali».
Come sarebbe a dire?
«Secondo me il luogo del dialogo è il cinema».
E il teatro?
«Per me il palcoscenico esiste per ingrandire e mettere in mostra la realtà. I miei testi teatrali esistono per essere detti, prosa da leggere, così si potrebbero definire. E i personaggi mi servono per appendervi il parlare che io attribuisco loro, come fossero un appendiabito».
Molti di questi personaggi sono donne. Lei si è dichiarata femminista. Lo è ancora?
«Certo. Cos’altro dovrei essere? Non parlo volentieri di cose personali, ma sono stata educata all’autonomia da mia madre, che era una donna incredibilmente indipendente. Quando poi ho visto le dinamiche tra uomo e donna nella realtà (ora è cambiato, ma non molto), come le donne non si costruiscono la propria vita, ma preferiscono farsela fare da un uomo possibilmente ricco, impiegando il proprio aspetto... è stato come se da analfabeta avessi dovuto imparare una lingua straniera».
Nelle ultime opere è più forte la presenza di temi sociali. Una delle più recenti I rifugiati coatti parla dei profughi a Lampedusa. Qual è la sua idea in merito?
«Il testo è un epos, polifonico, corale. Non potevo scrivere un’ Iliade, volevo però che andasse in quella direzione. Ma desideravo anche rappresentare la mia amarezza per quelli che arrivano senza diritti e noi non vogliamo tollerare qui. Quel noi che parla nel testo cambia costantemente, è lo spettatore a dover decidere chi è che sta parlando. Perché tutto e tutti siamo alla mercé delle condizioni sociali. Oggi? Non si vive più. Si viene vissuti».
E per il futuro ? Lei che progetti ha?
«Ho appena finito di scrivere un testo su un gruppo terroristico nazionalsocialista tedesco. In questo momento non sto lavorando. Semplicemente non ho programmi».