la Repubblica, 13 novembre 2014
Werner Herzog, autoritratto di un grande regista. «Non so cosa sia la paura. Internet non ha struttura, la struttura deve essere in noi: culturale, ideologica, informativa. Ma ai più giovani manca»
I fatti mentono. Quando qualcuno dice «questi sono i fatti, quindi questa è la verità», mente. O meglio, dice solo un aspetto della verità, quella che Werner Herzog definisce «la verità dei contabili». Ecco i fatti. Herzog è nelle Langhe tra Barolo e Alba per tenere oggi una conferenza sul paesaggio. Sta piovendo ininterrottamente. Dal castello di Grinzane Cavour le colline sono inghiottite dalla foschia come in un quadro di Friedrich.
E quello che è uno dei più grandi registi viventi, quest’uomo di 74 anni vissuti pericolosamente, che ha attraversato gran parte dell’Europa a piedi, ha girato un numero sterminato di film e documentari, ha combattuto contro la natura nella giungla e nei deserti, guardando il paesaggio con gli occhi divenuti due fessure dice tre frasi che forse fatti non sono. «Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio ci colpisce per il suo aspetto preistorico. Per quello che suscita nel nostro profondo». Quando e come avviene lo scivolamento da un piano all’altro, dal regno dei contabili a quello nascosto è il mistero racchiuso nei film di Herzog. Ma il mistero resterà tale. Solo film come Cuore di vetro o Aguirre furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser possono fornire qualche indizio su cosa significa andare oltre i fatti. Perché ogni domanda rivolta a Herzog cade in una terra dove le parole si arrendono e lasciano il campo all’azione. Cercare la verità oltre i fatti è un atto pratico, ha sempre sostenuto Herzog. Essere radicali – ed Herzog lo è sempre stato – significa essere pragmatici. I registi lo sono, devono esserlo. «Bergman – aggiunge Herzog riparandosi dalla pioggia – spesso incominciava la sua ricerca dal volto umano, da un particolare di un viso. Per me è sempre stato più importante un paesaggio».
Che cos’è un paesaggio?
«C’è un uso commerciale del paesaggio, per esempio quello che viene utilizzato come sfondo in uno spot. Ma un paesaggio può avere un significato molto più profondo. Le immagini che lo fissano possono cambiarci prospettiva e percezione. A volte il cinema e la grande pittura possono farlo».
Lei è convinto che le immagini possano causare una reale trasformazione in chi le guarda?
«Il cinema non ha un potere diretto, a parte alcune eccezioni. Recentemente ho girato un film per la AT&T, la società telefonica. Non volevo farlo, poi mi hanno spiegato che volevano fare una campagna per denunciare che gli incidenti più catastrofici sono causati da chi scrive messaggi sul cellulare mentre guida. Allora l’ho fatto e l’ho messo su Youtube».
Per lei è stato normale metterlo su Youtube?
«Su Youtube tutto quello che supera gli otto minuti non viene guardato. Infatti le cose più viste sono i milioni di video sui crazy cats, i filmati di gatti. Il film è stato visto da mezzo milione di persone, nonostante sia lungo 34 minuti. La conseguenza pratica è che dopo averlo visto non digiterai mai più un messaggio mentre guidi. Questa è appunto un’eccezione. Proposito pratico, risultato pratico. Non è quello che normalmente fa il cinema».
Normalmente il cinema non contempla neanche l’idea di “estasi” che per lei è centrale.
«Estasi è uno stato fisico. È quando salti fuori dal tuo corpo, dalla tua esistenza, dal tuo limite fisico e voli. Ma non siamo nati per volare. Uccelli e frisbee sono fatti per volare. Possiamo volare fuori da noi stessi attraverso il cinema qualche volta. O con la musica, con la poesia. Abbiamo la possibilità di passare a una forma di verità più profonda. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con il cosiddetto cinéma vérité e con la verità dei contabili. È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti di illuminazione. Più che fornire informazione è importante provocare estasi e illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste nessuna verità dei fatti».
La sua idea di ricreare un universo alternativo alla creazione ha degli aspetti quasi gnostici. Se fosse vissuto nel Medioevo sarebbe stato bollato come eretico. È d’accordo?
«(Ride) Mi sarei trovato più a mio agio in quella che chiamiamo erroneamente preistoria e che invece mostra di avere una civiltà e un’arte. Sono affascinato dalle forme d’arte arcaiche. Penso alle grotte Chauvet del documentario Caves of Forgotten Dreams. Oppure alla Sicilia, alla necropoli di Pantalica».
Si è dato una spiegazione?
«No. Ma il silenzio, il silenzio… Il silenzio che si avverte in quei posti è una diversa forma di silenzio».
Con Fitzcarraldo ha spostato una vera nave su una vera montagna in una vera foresta. Ha mai avvertito la fatica e la disperazione di Sisifo?
«Devo confessare di non essermi mai sentito così perché per Sisifo lo sforzo è vano. La roccia che nel mito greco spinge sulla montagna torna sempre giù, all’infinito. Io ho portato la mia roccia dall’altra parte della montagna. Ho portato a termine una cosa che si può toccare, che si può vedere. Ho sempre finito quello che ho iniziato. Sisifo non riesce a finire il suo lavoro con il masso. Questa è la tragedia. Io non ho vissuto una vita tragica né una vita assurda».
Cambiamo immagine. Un uomo cammina e si allontana, arriva così lontano che le strade sono finite. Procede ancora e vede quello che non dovrebbe essere visto. Quando torna non lo può raccontare a nessuno. È capitato anche a lei? Ci sono cose che non si possono mostrare?
«Grizzly Man è l’esempio. Mi è stato immediatamente chiaro che non potevo mostrare né far udire le scene che riguardavano la morte del ragazzo ucciso da un orso. Più in generale ci sono i video dell’11 settembre. Centinaia di persone si sono gettate dai palazzi del World Trade Center molto vicini alle telecamere ma nessuno ha mai visto quelle immagini. Non si può toccare, oltre alla privacy, la dignità umana. Il mio secondo film, Gioco nella sabbia, non l’ho mai pubblicato e non lo pubblicherò mai. Quando lo girai avevo solo 22 anni, ma capii che c’erano cosa che un film può mostrare e altre che non può mostrare».
Ma oggi è facile trovare ogni tipo di immagine su Internet.
«Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te. Per capire le cose devi capirne la grammatica. Solo così riuscirai a muoverti in questa massa amorfa di informazioni. Per farlo devi avere una struttura culturale, ideologica, informativa ed è quello che manca soprattutto ai più giovani».
Perché?
«Perché non leggono abbastanza. Questo vale anche per i film. La cosa che deve essere postulata è leggi, leggi, leggi. Se non leggi non puoi essere un uomo di cinema. Puoi essere un mediocre cineasta, ma non un grande uomo di cinema. Devi leggere. Questa mancanza di grammatica culturale è una delle ragioni per cui la gente oggi vive con un continuo senso di perdita. In Internet perdono se stessi e perdono le cose».
Come si recupera ciò che si perde?
«È come attraversare i paesi a piedi. È difficile da spiegare come il mondo rivela se stesso a chi viaggia a piedi».
Quindi si torna dove eravamo partiti, al paesaggio. C’è una relazione tra paesaggio, estasi, fatica fisica, per esempio camminare.
«A volte quando cammini a lungo, il paesaggio non scompare ma adotta qualità diverse e sviluppa interi romanzi. Quando si cammina la sera e il sole cala e l’oscurità ricopre l’intero paesaggio si perde la direzione eppure si continua a tenere la strada».
Mister Herzog, che cos’è per lei la paura?
«Non lo so. Non esiste nel mio vocabolario».