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 2014  novembre 13 Giovedì calendario

Il giorno delle dimissioni di Napolitano dovrebbe essere il 20 gennaio. Va a vuoto il pressing di Renzi perché il presidente resti fino a primavera. Lascerà subito dopo la fine del semestre europeo

Segnatevi questa data, 20 gennaio. Fate un cerchio sul calendario, giocatevi il numero al Lotto, accettate scommesse con gli amici perche, stando almeno a quanto raccontano fonti stavolta davvero autorevoli, dovrebbe essere quello il giorno in cui Giorgio Napolitano rassegnerà ufficialmente le dimissioni.
Dunque, niente tempi supplementari, niente mesi in più. Nonostante le pressioni di Matteo Renzi, che vorrebbe rinviare almeno a primavera la rischiosa pratica dell’elezione del nuovo presidente, Re Giorgio avrebbe deciso di mantenere il programma che aveva fissato: conclusione del semestre italiano di presidenza europea, incontro verso il 20 dicembre con le alte cariche della Repubblica per il rituale scamnbio di auguri, discorso di Capodanno agli italiani con preannuncio in diretta della sua uscita di scena per comprensibili motivi di età e di «insostenibilità» fisica del ruolo. Poi, dopo la Befana, le tante procedure formali e la firma della rinuncia al mandato presidenziale.
Un cronoprogramma che ufficialmente non trova nessuna conferma. Anzi, dal Quirinale non solo smentiscono la data ma anche che il capo dello Stato abbia preso una decisione. In realtà non può essere così, Napolitano sa benissimo che cosa vuole fare e quando farlo, ma chiaramente vorrebbe tenere riservata la data per due motivi. Primo, perchè è una scelta che tocca solo a lui e non vuole subire pressioni o condizionamenti. Secondo, perché annunciare in anticipo di voler lasciare il Colle significa dare una scadenza al mandato, depotenziare la sua figura, aprire di fatto una specie di «bimestre bianco». Invece, come c’è scritto nella nota diffusa domenica scorsa, il presidente intende mantenere fino all’ultimo giorno i suoi poteri e le sue prerogative.
Giochi fatti? Renzi continua comunque a sperare che non sia così. Dal Pd spiegano che il premier non vorrebbe trovarsi a febbraio un Parlamento bloccato per l’elezione del capo dello Stato, magari senza un accordo preventivo su un nome e quindi impantanato come l’ultima volta in settimane di inutili votazioni. E intanto le riforme verrebbero rimesse in frigorifero, la politica si paralizzerebbe e i mercati internazionali, implacabili, ci punirebbero. A Palazzo Chigi, dicono, ha fatto molta impressione l’omaggio del Financial Times a Giorgio Napolitano, «unica istituzione rafforzata negli ultimi 15 anni». Il quotidiano della city conclude augurandosi che l’Italia «riesca a trovarne un altro uguale».
Da qui il pressing renziano sul Quirinale negli ultimi giorni, la richiesta di restare se non fino novant’anni, a giugno, almeno fino maggio. L’altra sera da Vespa si era detto ottimista: «Forse ci farà una sorpresa...». Del resto la paura di Matteo su una possibile paralisi parlamentare, quando i mille grandi elettori saranno chiamati a scegliere il futuro capo dello Stato, è abbastanza giustificata. Basta vedere quello che è successo con la Consulta e il Csm, il gioco di veti e di vendette che ha provocato un lungo stallo non ancora concluso, dato che manca ancora da eleggere un candidato di Forza Italia alla Consulta. Come pensare che non accadrebbe lo stesso per il Quirinale? Come dimenticare la carica dei 101 che hanno pugnalato Prodi, o la notte che ha affossato Marini? A meno che stavolta dall’incontro tra Renzi e Berlusconi, oltre all’Italicum, sia uscito anche il nome del prossimo re repubblicano.