La Stampa, 13 novembre 2014
L’Europa è la grande esclusa dallo storico accordo tra Cina e Stati Uniti sul clima. I presidenti Obama e Xi hanno annunciato congiuntamente una grande intesa contro l’inquinamento atmosferico senza consultare il resto del mondo. Il rischio per il Vecchio Continente è quello di diventare virtuosamente meno inquinati ma anche sempre più lontani dalla prima fila: di occuparci maggiormente delle variazioni della nostra temperatura politica che di quelle dell’atmosfera mondiale
Ieri l’Europa era alle prese con il proprio clima politico, dai tumulti parafascisti di Varsavia agli scandali sulle spese elettorali a Parigi, dalla possibile secessione della Catalogna ai possibili conflitti di interesse del neo-presidente della Commissione, Juncker, fino all’incontro Renzi-Berlusconi. Anche le due maggiori potenze mondiali, Stati Uniti e Cina, ieri si sono occupate di clima, ma di quello «vero».
I presidenti Obama e Xi hanno messo fine a decenni di indifferenza climatica e annunciato congiuntamente una grande intesa contro l’inquinamento atmosferico. Al termine della riunione dei Paesi dell’area Asia-Pacifico, hanno comunicato di aver concordato un accordo innovativo e forse epocale: gli Usa accettano di ridurre di oltre un quarto in 10 anni le loro emissioni di gas a effetto serra, la Cina invece continuerà ad aumentare le proprie emissioni inquinanti ma si è impegnata a raggiungere il picco “intorno al 2030”.
E contemporaneamente, a soddisfare con fonti rinnovabili non inquinanti (energia solare, termoelettrica, eolica) un quinto del proprio fabbisogno energetico.
Per entrambi – e per tutto il mondo – l’accordo comporta cambiamenti radicali nell’economia e nella società. Basti pensare che uno dei primi atti del presidente George W. Bush, entrato in carica nel gennaio 2001, fu quello di ritirare l’adesione degli Stati Uniti al Protocollo di Kyoto, primo tentativo – opera di europei e giapponesi – di controllare il clima del pianeta. Il motivo? L’accordo di Kyoto «costava troppo» ed era contrario all’«American way of life», fatta di luci sempre accese, aria condizionata al massimo e automobili che divorano carburante, sull’onda di uno spreco ostentato di energia allora a basso costo, acquistabile con dollari che tutto il mondo accettava senza fatica e Washington stampava volentieri.
L’America che dice sì al disinquinamento sta uscendo, con difficoltà e profondi mutamenti, dalla crisi iniziata nel 2008 e ha subito quest’anno un terribile inverno, con una tempesta polare dopo l’altra che hanno provocato una caduta record del prodotto interno lordo nel primo trimestre. A questo si deve aggiungere una siccità ormai più che decennale nelle regioni occidentali. Entrambi i fenomeni sono probabilmente determinati, almeno in parte, da variazioni climatiche legate all’inquinamento. Sotto l’effetto della crisi e del clima, il Paese è diventato più «biologico», più «verde», maggiormente preoccupato per le risorse e (un po’) meno sprecone. Il cambiamento del modo di vita americano, che George W. Bush riteneva immutabile e irrinunciabile è ormai in atto, gli Stati Uniti sono culturalmente pronti a prendere sul serio i problemi climatici.
Espresso in tonnellate di gas serra immesse nell’atmosfera, il contributo della Cina all’inquinamento globale è poco più del doppio di quello degli Stati Uniti; siccome però i cinesi sono tantissimi, l’inquinamento per abitante in Cina è pari a poco più della metà di quello della Usa. Questo contribuisce a spiegare perché, se per gli Stati Uniti l’applicazione del nuovo accordo comporterà soprattutto un cambiamento nel modo di vivere, per la Cina si tratta soprattutto di un cambiamento nel modo di produrre e nella struttura stessa della produzione.
La Cina produce quasi la metà di tutto l’acciaio del mondo, assai più di quanto oggi le serve. Ne produce tre volte di più di dieci anni fa e riesce a esportarne una buona quantità perché il suo costo di produzione è molto basso, non tanto, o non solo, per il basso livello dei salari ma perché per questa produzione brucia un’enorme quantità di carbone, di cui ha depositi immensi a basso costo di estrazione. Paga però un prezzo occulto fortissimo, per questa e per altre produzioni industriali di base, rappresentato da un inquinamento travolgente, soprattutto da polveri di carbone. Un recente studio cinese mostra che, delle 161 maggiori città del Paese, 152 non rispettano il livello di qualità dell’aria fissato dal governo: una grigia nebbiolina inquinante è l’aspetto più caratteristico del paesaggio urbano cinese e si traduce in malattie e minor durata della vita.
Meno acciaio e più «design», meno industria di base e più elettronica, informatica, servizi: è questo, in sostanza, il programma di cambiamento strutturale della produzione messo a punto dalla nuova dirigenza cinese che recepisce la domanda che sale da una popolazione di giovani molto più istruiti dei loro genitori che vogliono lavorare a un computer e non vicino a un altoforno. Naturalmente i cambiamenti tecnici, a differenza dei mutamenti di stili di vita, richiedono tempi tecnici, spesso molto lunghi, il che spiega il maggior tempo per diventare «verde» che la Cina ha concordato con gli Stati Uniti.
E l’Europa? Su scala mondiale, il nostro continente è verdissimo: ha applicato l’accordo di Kyoto e si appresta a nuove, fortissime riduzioni delle emissioni dannose (pagando il beneficio in salute con maggior costo di produzione, minori esportazioni, minor crescita e occupazione, uno scambio che abbiamo accettato). Gli europei hanno tutti un forte interesse economico a che americani e cinesi seguano la stessa strada.
A Pechino, però, l’Europa non c’era, trattandosi di una riunione dell’area Asia-Pacifico. Il fatto è che americani e cinesi hanno deciso da soli, senza chiedere né il parere né il permesso all’Europa o al resto del mondo. Il nostro rischio è quello di diventare virtuosamente meno inquinati ma anche sempre più lontani dalla prima fila: di occuparci maggiormente delle variazioni della nostra temperatura politica che di quelle dell’atmosfera mondiale. Di subire le grandi decisioni mondiali invece di contribuire a determinarle.