La Stampa, 12 novembre 2014
Walter Bonatti in versione reporter. Dall’alpinismo alla scoperta del pianeta in solitaria
Walter Bonatti: la razionalità, il rigore, la volontà di giustizia. Non poteva che entrare a Palazzo della Ragione il più illuminista degli alpinisti del Novecento, un matematico dell’arrampicata.
Nel palazzo milanese ora consacrato alla fotografia, ma che fu sede dei magistrati ai tempi di Dante e di una giustizia offerta al popolo nella semioscurità dei suoi alti portici. Lì entra il Bonatti che ricordi, ma non ti aspetti, ancora più piccolo di quanto si dipingesse lui rispetto alla natura, in quei locali alti dove le sue fotografie emergono per raccontare ciò che appassionò l’Italia tra il 1965 e il 1978, i reportage su «Epoca».
Il mondo che hai letto e visto, gli angoli del Pianeta più remoti, dai deserti di sabbia e di ghiaccio alle isole misteriose come Pasqua. La mostra apre domani in quel palazzo del Comune di Milano in cui si è appena conclusa una delle tappe di «Genesi» di Salgado. Dal bianco e nero del più celebrato e famoso fotografo di oggi ai colori d’antan del più celebrato e famoso alpinista-esploratore del Novecento.
«Un modo per rivedere con altri occhi i luoghi fotografati da Salgado, dal Polo Sud all’Africa», dice Alessandra Mauro che con Angelo Porta ha curato la mostra prodotta da Comune di Milano, Civita, l’agenzia fotografica Contrasto e Gamm Giunti.
Nel 1965, a febbraio, Bonatti insegue da solo il centro della parete Nord del Cervino. Due bivacchi da brividi, poi il rientro a Cervinia in una folla festante che lo attende. Lui ha gli occhialoni grandi, da sci. E dice: «Basta». Chiude lì la sua esplorazione verticale, con una prima salita in solitaria che stupisce il mondo, come fu nel 1955, quando da solo se ne andò su sulla Ovest del Petit Dru (versante francese del Monte Bianco), compiendo un gesto incredibile, il lancio della corda come una bolas alla ricerca di un appiglio per percorrere in pendolo la parete e superare uno strapiombo.
L’alpinismo di Bonatti non poteva essere dimenticato. L’apertura è per le foto di due trionfi, il Petit Dru e il Cervino, e di una sconfitta tragica, quella del 1961 al Pilone Centrale del Monte Bianco: di sette alpinisti, francesi e italiani, ne tornarono tre, Walter, Pierre Mazeaud e Roberto Gallieni. Ci sono anche gli oggetti, gli scarponi in cuoio piegati e consumati sulla Nord del Cervino, i guanti bianchi in lana (moffole) del Pilone e la macchina fotografica che usò al Petit Dru: una Ferrania Condoretta. Poi la sua prima (e unica) macchina per scrivere: una Serio (l’azienda fu comperata dall’Olivetti), modello Everest-K2. Bonatti la ricevette in dono nel 1954, quando tornò dal K2.
Una vicenda che gli segnerà l’intera esistenza, nel bene, anzi, soprattutto nel male. Dimenticato consapevolmente a 8.000 metri da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, impauriti che anche lui potesse arrivare in vetta, ottenne poi giustizia: i fatti ricostruiti gli diedero ragione, la sua versione venne accertata dall’ormai famosa «relazione dei saggi».
La polemica non entra in mostra, il K2 sì. Poi i filmati in cui appare lo stesso Bonatti a raccontare il suo addio all’alpinismo in quel febbraio del Cervino. Qualche mese dopo, a maggio del 1965, è già in ginocchio in mezzo alla sua canoa di tela rossa per guidarla nella corrente dello Yukon. Il fiume di uno dei suoi miti letterari, Jack London. È il suo primo viaggio da fotoreporter dei posti più selvaggi del mondo. Un battesimo che ricorda quello della sua volontà di diventare alpinista: lo decise da ragazzo, mentre giocava su un tronco alla deriva nelle acque del Po e il suo sguardo andava verso le quinte viola delle Prealpi. A Palazzo della Ragione il viaggio di Bonatti è testimone dei grandi spazi del Pianeta dove l’uomo fatica a sopravvivere.
Grandi spazi che offrono il titolo all’evento. Novantasette foto, sette di formato enorme, con i paesaggi da sogno «di grande valore fotografico», dice Alessandra Mauro. «Quello di Bonatti è un doppio registro, protagonista di ciò che racconta, un selfie ante litteram in paesaggi-documento». L’esplorazione che non è più. Bonatti, morto a 81 anni nel 2011, scrisse: «L’uomo moderno non sa più stare solo».