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 2014  novembre 12 Mercoledì calendario

Quelle dolci parole tra Reagan e la Thatcher che confermano che il loro era un matrimonio politico. Dalla registrazione di una telefonata di trent’anni fa

È un nastro di trentuno anni fa, ma è uno dei più ascoltati nelle ultime ore. È la voce di Ronald Reagan a parlare. Il tono è (volutamente) contrito. Il presidente americano si deve spiegare, e soprattutto scusare, con Margaret Thatcher. Parla dalla Situation Room, la conversazione è tutta registrata. È l’ottobre del 1983, le truppe americane hanno invaso Grenada – ex colonia dell’Impero britannico e membro del Commonwealth – ma non hanno avvertito Londra. Quindi la Lady di ferro è furiosa, anzi, come ha fatto sapere lei stessa in un messaggio a Reagan, «deeply disturbed», profondamente disturbata dalla decisione presa dall’alleato. Perché secondo Washington il colpo di Stato avvenuto a Grenada pone l’isola caraibica a rischio (...)
(...) di finire sotto l’influenza cubana o sovietica, ma secondo la Gran Bretagna (e anche il Canada e Trinidad & Tobago) non bisogna intervenire militarmente.
Insomma Reagan chiama la Thatcher e sa che deve ricorrere a tutto il suo fascino, a tutta la sua abilità di ex attore, a tutte le sue armi di amico del primo ministro per blandirla. Così esordisce con un vecchio detto, e chiamandola confidenzialmente per nome: «Margaret, se fossi lì getterei il cappello sulla porta prima di entrare», un gesto per tastare il terreno, per capire se si fosse benvenuti o meno (e, nel secondo caso, a rischio della propria vita). Margaret, da parte sua, lo gela: «Non ce n’è bisogno». Le manfrine non servono, dice a parole la Iron Lady, ma di fatto funzionano. E quando poi il presidente comincia ad argomentare, e a spiegare che non l’ha avvertita dell’intervento solo per timore di una talpa che mandasse in fumo tutta l’operazione (che, perché nessuno sottovaluti l’entità della minaccia, si chiama Operation Urgent Fury anche se, secondo il Washington Post, «non era né così urgente, né particolarmente furiosa»), allora la Thatcher comincia a sciogliersi, dice subito di comprendere il problema, di averlo affrontato lei stessa, sulla sua pelle, al momento della guerra delle Falklands, l’anno precedente.
Reagan non dimentica di essere nel torto, quindi insiste di essere «molto dispiaciuto per l’imbarazzo che vi abbiamo causato» ma, appunto, spiega di non avere avuto scelta, a causa delle possibili spie, anzi Reagan parla di un «leak», una parola che ormai tutto il mondo conosce molto bene dopo migliaia di cablaggi top secret diffusi da Assange. Il primo ministro sa di che rischio si parli, tanto da confessare: «Lo so bene, per via delle Falklands. È per questo motivo che non voglio parlare a lungo con te, nemmeno sulla linea telefonica segreta, perché anche quella può essere spiata».
Quindi la Thatcher non si fida nemmeno della famosa «linea calda», però non sa che in realtà tutto lo scambio è registrato: dieci minuti di telefonata che finiranno nell’«archivio personale» di Reagan, decine di conversazioni con i vari leader del mondo che il presidente fece registrare dalla Situation Room e che sono state rese pubbliche in questi giorni dal giornalista e scrittore William Doyle. Le prime testimonianze sono state pubblicate sul New York Post, frammenti di nastri conservati nella Biblioteca Reagan e richiesti da Doyle nel 1996, che solo pochi giorni fa sono stati desecretati. Fra questi, appunto, la telefonata di scuse con la Thatcher, nella quale emerge tutta l’empatia, e anche la familiarità fra i due leader. Reagan sa benissimo come prendere la Thatcher, sa come riportarla al suo fianco, sa convincerla, sa sciogliere la sua diffidenza, placare la sua rabbia. Dopo la confessione sulle Falklands e sui suoi stessi dubbi, la strada è spianata. A quel punto la Thatcher è di nuovo dalla parte di Reagan, l’alleanza è ristabilita, la special relationship è salva: «Ormai l’azione a Grenada è in corso e speriamo solo che abbia successo» dice il premier, come a farsene una ragione. E poi pronuncia una frase che è più di un perdono: «C’è ancora molto lavoro da fare, Ron». Ron, come un amico. E quel «lavoro» che è il loro impegno e testamento storico e politico, comune più che fra qualunque altro leader fra le due sponde dell’Atlantico dopo la seconda guerra mondiale. Un «lavoro» che Nicholas Wapshott ha definito un «matrimonio politico», per la vicinanza di idee e di spirito, in economia e in politica estera, nella battaglia liberista e contro il comunismo, con Reagan che bollava l’«Impero del male» e la Thatcher che organizzava incontri con Gorbaciov.
Alla fine della telefonata la Thatcher dice di dover andare, perché la aspetta una seduta «difficile» ai Comuni. «Vai e mangiateli tutti vivi» dice Reagan, che ormai è tranquillo e pensa di potersi permettere una pacca sulla spalla. «Goodbye», lo saluta la Lady di ferro.