Libero, 12 novembre 2014
L’Aquila, Cucchi e Saviano. Tutte le assoluzioni che fanno scandalo
Ovvio che le sentenze scontentano sempre qualcuno: tutte, anche quelle cerchiobottiste, all’italiana, quelle che commìnano pene ridicole a fronte di imputazioni dapprima mostruose. Sicché è normale che al termine di un processo qualcuno s’incazzi, e che giudichi magari “sbagliata” una sentenza che ne ha contraddetta una precedente; possono incazzarsi i parenti di una vittima e possono farlo i giornali che sostenevano una causa, insomma è normale, le sentenze si possono discutere – si dice. Ma questo vale soprattutto in linea di principio: perché in Italia, forse, sta succedendo qualcosa di diverso. In sintesi: 1) Le sentenze più rumorose riguardano sempre delle condanne mancate, e il rumore proviene quasi sempre da parti che chiedono giustizia ma che in concreto chiedono sempre condanne; 2) Alcuni processi d’Appello sfociati in assoluzioni o valutazioni molto diverse (per restare agli ultimi giorni: il caso Cucchi, il terremoto dell’Aquila, i boss accusati di minacce a Saviano) hanno reso più evidente che molti processi di primo grado non erano soltanto i più mediatici, ma erano anche quelli fatti maggiormente coi piedi: che ci piacesse o meno la sentenza. Il primo punto lo liquidiamo in fretta, anche perché se ne scrive da una ventina d’anni: si parla di quella strepitante italietta che dà sempre ragione ai magistrati ma, in caso di assoluzione, gliene dà un po’ meno, o intravede trame oscure. In questo caso giornali e telegiornali non si fanno problemi a intercettare e amplificare il rumore dei delusi – lo fanno giornali e talkshow, praticamente tutti – e viene dato massimo spazio, come negli ultimi giorni, alla gente che grida “vergogna” nelle aule dei tribunali alla lettura delle sentenze, in genere con motivazioni che si assomigliano tutte: è uno scandalo, vogliamo la verità, hanno coperto i mandanti, la pena è troppo bassa e via così. I giornalisti spesso si limitano a porgere il microfono (la telecamerina) e a fomentare chi la spara più grossa, anzi mediatica: ieri il Fatto Quotidiano – lo citiamo in quanto campione di specialità – titolava “Tutti assolti, le vittime hanno sempre torto” e nel sottotitolo “Parenti in rivolta: vergogna, mafiosi”. Potrebbe essere un titolo del Fatto per un processo qualsiasi: nel caso era l’Appello per il terremoto dell’Aquila. A colpire, in certe reazioni rabbiose, non è tanto una diversa valutazione sulle prove rispetto a quella dei giudici: è che non si accetti che di prove semplicemente non ce n’erano. E se non ci sono, o non reggono, i giudici devono prenderne atto magari a malincuore: fine, il diritto non sa che farsene della verità “sostanziale” con cui si pretenda di fare giustizia urlando la propria dolorosa indignazione. Per esempio: se non c’è prova che i boss casalesi abbiano effettivamente minacciato Saviano, beh, la sentenza d’Appello si limita a prenderne atto: dopodiché, se il Ministero dell’interno ha buoni motivi per ritenere che lo scrittore meriti ugualmente l’imponente apparato di sicurezza che lo imprigiona da anni (è secondo solo a quello del Capo dello Stato) nessuna sentenza d’Appello potrà impedirlo. Il che non toglie che le sentenze d’Appello mettano un timbro su fatti e prove e non siano – no – esattamente e banalmente una ripetizione del primo grado, qualcosa cioè che potrà avere un altro esito a seconda del giudice diverso: i processi d’Appello sono, in parte, un processo al processo precedente, un grado superiore di valutazione rispetto a un primo grado che, nel nostro Paese, non sempre gode di miglior fama. Il punto è questo: troppi processi di prima istanza, da noi, vengono probatoriamente distrutti da una verifica più fredda e meno condizionata dal tamburo dei media. Troppe frettolose sciocchezze non reggono in Appello e figurarsi in Cassazione. In Italia si dice da anni che tre gradi di giudizio sono troppi e che l’Appello andrebbe abolito: ma la verità, paradossale, è che andrebbe abolito il processo di primo grado, andrebbero aboliti, cioè, troppi dibattimenti “tirati via” proprio perché si sa che in ogni caso c’è l’Appello. Un processo che ne ribalti un altro può essere imperniato su diverse valutazioni giurisprudenziali, ma anche e soprattutto su un primo grado che spesso è un po’ buttato lì, a grande richiesta. Anche se la sentenza, magari, ci piaceva tanto.